.? Procura Generale della Repubblica
presso la
CORTE DI APPELLO DI ROMA
Motivi a sostegno del ricorso per cassazione proposto dal P.M. il 6 maggio 1964 avverso la sentenza della Corte di appello di Roma - I sezione - dello stesso giorno, con la quale, in riforma di quella del Tribunale di Roma del 7/3/1963, PASOLINI Pier Paolo veniva assolto dal delitto di vilipendio della religione dello Stato perch? il fatto non costituisce reato.
FATTO E SENTENZE
Pier Paolo Pasolini veniva tratto a giudizio del Tribunale di Roma per avere, nel febbraio 1963 in Roma, pubblicamente, vilipeso la religione dello Stato, in quanto, quale soggettista e regista dell'episodio La ricotta del film RoGoPaG, col pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, aveva rappresentato alcune scene della passione di Cristo, dileggiandone la figura ed i valori, sia col commento musicale che con la mimica, il dialogo e le altre manifestazioni sonore, nonch? tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica.
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 7/3/1963, condannava il Pasolini a mesi 4 di reclusione con i benefici di legge, per il delitto ascrittogli, e su appello dell'imputato, la Corte di appello in Roma, con sentenza del 6 maggio u.s., lo assolveva perch? il fatto non costituisce reato.
Contro la detta sentenza viene proposto ricorso per cassazione per il seguente motivo
VIOLAZIONE DELL'ART. 402 C.P.
La corte di appello, dopo di avere considerato che la sentenza impugnata aveva riscontrato esservi vilipendio alla religione dello Stato perch? il Pasolini nel suo film, aveva riprodotto con irriverenze, le sconcezze, gli atteggiamenti blasfemi, il turpiloquiio a cui si erano abbandonati tutti coloro che avevano partecipato come registi, attori, comparse ecc., durante la produzione di un film in cui veniva rappresentata la Passione di Cristo, nel presupposto che il Pasolini per poter deridere la religione dello Stato aveva preso il pretesto della produzione di un film, alcuni squarci di vita contemporanea come viene vissuta nell'ambiente cinematografico durante la produzione di un film, nonch? l'eterno contrasto tra i ricchi e i poveri, tra i fortunati e i diseredati, tra i dotti (o che si credono tali) e gli ignoranti (ma che non vogliono essere riconosciuti come tali) non poteva negarsi all'autore la esigenza di rappresentare secondo la sua manifestazione d'arte, quanto aveva intenzione di esprimere ed il Pasolini per tradurre scenicamente il suo pensiero, con tutte le sue idealit? ed immaginazioni, aveva dovuto servirsi di quelle parole, di quei gesti, di quei suoni, peculiari ai personaggi che aveva voluto rappresentare.
In altri termini, secondo la Corte di appello, se si vuole rappresentare qualcosa di profondamente abbietto, qualcosa di profondamente immorale, qualcosa che nel linguaggio religioso si chiama "peccato" ? ovvio che non si possa non servirsi di quelle immagini, di quei suoni, di quelle parole che meglio diano la sensazione dell'abiezione, dell'immoralit?, del "peccato", cos? che Pasolini con le scene irriverenti, blasfeme, che appaiono nel film non ha voluto dileggiare i simboli della religione cattolica ma solo rappresentare il modo di comportarsi del sottoproletariato delle borgate romane, da cui vengono scelte di solito le comparse cinematografiche, di molti registi, di molti attori anche durante la ripresa di film tratti dalla storia sacra, facendo risaltare l'assoluta insensibilit? morale di fronte alle cose oggetto delle pi? profonda venerazione, ed ha voluto rappresentare lo stato di miseria in cui vive il sottoproletariato che, per origine buona, viene spinto al male per lo sfruttamento che su di esso esercita la classe capitalista e per la necessit? di procurarsi i mezzi necessari per sua esistenza. Evidentemente la Corte di appello ? incorsa in errore nell'affermare che, se molte scene del film in parola erano da considerarsi irriverenti, blasfeme e, qundi, vilipendiose, pure il fine dell'imputato non era quello di vilipendere la religione cattolica ed ha ancora omesso di dare una qualsiasi motivazione sull'esistenza del fine asserito dal Pasolini.
L'art. 402 C.P., punisce chi pubblicamente vilipende la religione dello Stato ed oggetto specifico della tutela penale ? il pubblico ineteresse di proteggere la religione cattolica-apostolica-romana, considerata (in se stessa) nelle sue credenze fondamentali, quali l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti ed i suoi simboli, ed indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori. La tutela penale della religione cattolica-apostolica-romana viene ricondotta sotto quella del sentimento religioso come patrimonio morale di un popolo, come forza spirituale operante nella nostra societ? e concorrente al perseguimento dei fini dello Stato. Il sentimento religioso ? inteso come una entit? che trascende i limiti del patrimonio morale e individuale, per assurgere ad interesse generale. Non tanto fenomeno della coscienza collettiva quanto vero e proprio fenomeno sociale, onde i delitti contro il sentimento religioso sono, nel sistema del codice penale vigente, considerati come offesa ad un interesse collettivo.
L'elemento materiale del delitto ?, pertanto, il mostrare di tenere a vile e pi? precisamente esporre con manifestazioni di disprezzo, di ingiuria grossolana e volgare, di contumelia, di dileggio la religione dello Stato, che ? la religione cattolica-apostolica-romana, perch? professata dalla stragrande maggioranza del popolo italiano. Qualunque forma di manifestazione del pensiero e del sentimento (atti, gesti, parole, disegni, immagini, suoni) assume il carattere della derisione, del disprezzo, del dileggio, dello scherno quando l'agente mostri di tenere a vile la religione cattolica-apostolica-romana, specificatamente tutelata dalla legge.
Il vilipendio, per aversi la figura criminosa di cui all'art. 402 C.P., sussiste non solo quando l'offesa investe tutta la materia che forma oggetto della fede cattolica, - l'idea di Dio, i dogmi della Chiesa, i suoi sacramenti, i suoi riti, i suoi simboli - ma altres? quando ne siano investiti uno o pi? punti. L'elemento psichico, come si evince dalla relativa disposizione di legge, consiste nel dolo generico e questo sussiste quando sia accertata la commissione cosciente e volontaria di atti, di parole, di scritti, o di altra forma di manifestazione del pensiero e del sentimento oggettivamente vilipendiosi contro la religione cattolica, che ? la religione dello Stato. Non dolo specifico, quindi, essendo sufficiente la coscienza e la volont? del fatto, la volont? cio? dell'azione rivolta alla produzione dell'evento lesivo con la piena consapevolezza della idoneit? della condotta a produrre il risultato. Il motivo, lo scopo, che spinge all'azione, nella formazione dell'intenzione, ? il fine che il soggetto si propone di raggiungere con l'azione e costituisce la ragione del delinquere. Il motivo aderisce all'elemento subiettivo del reato, ma non ? parte costitutivo di esso: precede e genera il dolo, ma non ? il dolo, che, qualunque sia il motivo dell'azione, ? uguale sempre non potendo che risultare dagli elementi che la legge richiede per la sussistenza di esso. In altri termini, non deve confondersi sul piano giuridico il movente psicologico o motivazione dell'azione ed il dolo. Il movente o il fine del reato ? motivo normalmente irrilevante, mentre il dolo ? la causa, cio? l'elemento psichico, volitivo che determina immediatamente l'azione.
Se tali principi giuridici sono esatti l'affermazione di responsabilit? di Pier Paolo Pasolini da parte della Corte di appello doveva essere confermata.
Non vi ? dubbio che il film La ricotta nel suo complesso, e in alcune particolari sequenze, come del resto ha ritenuto la stessa Corte d'appello, sia obiettivamente vilipendioso della religione cattolica-apostolica-romana.
Il film rappresenta una giornata di lavoro di una ?quipe di attori e comparse per la ripresa cinematografica in esterno di alcune scene della passione e morte di Ges? Cristo. Il personaggio principale ? un tale Stracci, povero ed affamato, che dovrebbe rappresentare il buon ladrone, ma secondo l'immaginazione dell'autore rappresenta il sottoproletariato che ? costretto per la sua miseria a vivere ai margini della vita sociale e che lavora solo quando ne ha l'occasione. Lo Stracci viene raffigurato come un semplice e un istintivo, ma buono e generoso tanto da essere costretto a lavorare seppur ammalato, che cede il cibo a lui spettante come comparsa ai membri della sua famiglia, che sopporta il lavoro sotto i morsi della fame e, quando una fortuita circostanza, la vendita di un cane non suo, gli consente di avere mille lire, egli le impiegher? senza esitazione, nell'acquisto di ricotta: la manger? avidamente insieme ad altri cibi che in abbondanza, per scherzo o per derisione, gli offrono i compagni di lavoro. L'assurdo e spasmodico ingoiamento della ricotta e degli altri cibi lo condurr? subito dopo a morte, quando inchiodato sulla croce ed innalzata con le altre sulle colline che dovrebbero significare il Calvario, sta per dare vita alla scena finale della passione e morte di Cristo e dei ladroni. Il film si chiude con la seguente considerazione del regista: "povero Stracci, la sua morte ? stato il solo suo modo di fare la rivoluzione".
La trama del film non ? in alcun modo vilipendiosa per la religione dello Stato e nessuna osservazione penalmente rilevante pu? farsi sul contenuto sociale del messaggio, creandosi un personaggio protestatario, ma tutto il film si svolge nelle sue scene, nelle sue inquadrature, nelle sue sequenze e nei suoi commenti musicali e verbali in maniera tale che la religione cattolica risulta dileggiata e derisa nei suoi simboli e nelle sue manifestazioni pi? toccanti ed essenziali.
Basti pensare ai due quadri viventi, realizzati a colori perfettamente limpidi, e riproducenti due opere pittoriche rinascimentali del Rosso Fiorentino e del Pontormo. Essi rappresentano due deposizionik che, per la purezza dei colori, per l'ascetismo promanante dalle immagini e per il contenuto altamente religioso riferitesi al momento della deposizione del Cristo, che viene staccato dalla croce e mestamente composto dalle pie donne, suscitano un indescrivibile senso di venerazione e di misticismo, per cui lo spettatore ? tutto preso da questa religiosa atmosfera partecipando alla scena della passione che rivive sullo schermo.
L'atmosfera religiosa attraente creata viene distrutta con una irrisione tanto grave quanto immotivata.
Al quadro vivente della deposizione del Rosso Fiorentino viene accoppiato come commento musicale un "twist" e poi un "cha-cha-cha" e il serafico volto del Cristo, serenamente composto nell'immagine della morte, proprio nel momento di pi? profondo e mesta religiosit? della scena, si contrae in un riso sguaiato, appena la Madonna ha finito di ripetere i toccanti versi di Jacopone da Todi: "Figlio, l'alme ti ? uscita...".
Alla deposizione del Pontormo viene accoppiato, come commento musicale, pure un ballabile e l'atmosfera religiosa gi? cos? turbata viene definitivamente diradata per l'ilarit? provocata dalla caduta del Cristo a terra tra le sguaiate risate delle altre comparse, a cui segue sferzante ed ingiurioso sul Crocefisso, sulla Madonna, sui Santi ritratti di volta in volta in primo piano il grido di "cornuti, cornuti, cornuti".
Altre sequenze debbono essere considerate vilipendiose: i vari bivacchi delle comparse, durante le pause di lavoro sulle croci poggiate a terra che, pur pezzi di legno, rimangono tuttavia sacre espressioni della religione; i figli di Stracci, seduti sul prato a mangiare, vengono invitati da un Santo con veste lugna ed aureola - un santo pederesta - a seguirlo; il regista che chiede la corona di spine gridando "la corona" ed il grido passa di bocca in bocca fino a quando la parola "corona" sara' ripetuta col tono di chi parla di cosa che ormai ha fatto il suo tempo e arreca fastidio e seccature; il regista, pretestuosamente, grider? "via i crocefissi", il grido ? ripetuto da figure in primo piano che appaiono in una successione di stacchi, cos? che non risulta la trasmissione di un ordine, ma il diffondersi di un grido unanime "via i crocefissi" ed il grido blasfemo viene ripetuto financo da un cane lupo, dando al suo abbaiare la voce cupa di un uomo, il segno della croce, che lo Stracci ripete per due volte nella sua corsa comica alla Ridolini per l'acquisto della ricotta, ? un segno irriverente e blasfemo per la religione dello Stato; infine una non redenta Maddalena effettua lo spogliarello fino a denudarsi mentre l'uomo, che ? inchiodato sulla croce e che rappresenta il crocefisso, ritmicamente e lubricamente sussulta per poi abbandonarsi sulla Croce nell'estasi dell'eiaculazione.
Da tutto ci? si evince in modo chiaro che l'opera di Pasolini ? una grossolana derisione della religione nella sua fondamentale credenza, nei suoi mistici riti, nella sua essenza e se si esclude un fine specifico di vilipendere la religione - fine non richiesto per la configurabilit? del reato previsto dall'art. 402 C.P. - non si pu? non riconoscere che egli ha avuto piena consapevolezza dell'offesa che alla religione derivava dagli atti di vilipendio volontariamente commesso.
I fini leciti o legittimi, cui secondo la sentenza impugnata si sarebbe ispirata l'opera di Pasolini, cio? di aver voluto rappresentare il modo di comportarsi del sottoproletariato delle borgate romane, di molti attori e registi durante la lavorazione di un film a soggetto sacro ovvero di aver voluto rappresentare lo stato di miseria del sottoproletariato, non escludono n? elidono la coscienza e la volont? di offendere la religione cattolica, giacch?, voluta la condotta vilipendiosa si integra necessariamente anche l'elemento soggettivo del reato.
La legittimit? e liceit? del fine non pu? avere efficacia discriminante quando esso ? perseguito a mezzo di dolose azioni penalmente illecite. Pertanto, anche se Pasolini avesse avuto il fine ritenuto dalla Corte di appello egli, avendolo realizzato attraverso il vilipendio della religione cattolica, avrebbe dovuto essere condannato.
Omissione di motivazione sull'esistenza del fine proclamato dal Pasolini ? la seconda censura che si muove alla sentenza impugnata.
La Corte di appello si ? limitata ad affermare apoditticamente - sic et simpliciter - che il fine che il Pasolini si era ripromesso di raggiungere con il suo film era quello di consentire al sottoproletariato, da tutti ignorato, di dare testimonianza di s? nella pi? eclatante e luttuosa maniera protestataria, cio? la morte e di raffigurare la insensibilit? morale dei cineasti nel trattare argomenti del massimo rispetto e venerazione. Al di l? di questi fini apparenti e proclamati dall'imputato e per conto dello stesso dal testa Bini la Corte avvrebbe dovuto accertare l'esistenza di un altro fine che, se tenuto nascosto, appare, per?, manifesto in tutta la sua fraudolenza.
La volonta' di Pasolini di dileggiare direttamente la religione cattolica risulta chiaro e preciso avuto riguardo a tutte le situazioni artatamente create, alla scelta delle musiche, al tono di determinate espressioni, all'inquadratura di alcune scene. Pu? darsi che il fine reale di Pasolini sia stato quello del dileggio della religione cattolica, specialmente nei confronti del Cristo, dell'uomo che si ? sacrificato per la redenzione del mondo e che costituisce la figura pi? alta della religione cattolica.
Ogni altro fine proclamato e dichiarato deve considerarsi pretestuoso, servendo a nascondere quello che ? stato il reale fine di Pasolini: il dileggio della religione cattolica-apostolica-romana.
P.Q.M.
chiede che la Corte Suprema di Cassazione annulli con rinvio la sentenza impugnata.
Roma, 21 luglio 1964
Il Sost. Procuratore Generale
Dr. Giuseppe Battiati
|