Pier Paolo Pasolini
La saggistica
Pasolini, dialoghi di formazione
Lettere 1940-54
di Michele Gulinucci
"il manifesto" del 20 marzo 1987
Quando leggiamo una dopo l'altra le lettere di un epistolario, quasi mai le consideriamo per quello che sono: in gran parte delle risposte. Notizie autobiografiche o embrioni d'opera formano una successione che sembra governata dal caso, come se l'autore si fosse trovato a dialogare con le domande di un questionario infinito e capillare, compilato da questa redazione anonima.
Nell'intreccio di significati che è, a posteriori, una corrispondenza, l'intervento di un destinatario non può che rendere più oggettiva la figura del mittente: un po' meno "io monologante" e un po' più "autore", insomma. Cosi' l'epistolario può diventare davvero immagine del laboratorio. Nel caso di Pasolini, l'impressione di un "lavoro" in atto è netta fin dalle prime lettere, scritte a diciotto anni. Franco Farolfi prima, e poi gli amici bolognesi della progettata rivista "Eredi" - fra cui Francesco Leonetti e Roberto Roversi - ricevono missive che registrano le tappe dell'adolescenza sullo stesso ruolino di marcia delle lettere e dell'apprendistato poetico. Il tutto con l'accento vitale e allegro di chi, anche nelle more degli "stati d'animo" giovanili, desidera e prepara.
Il racconto di una scampagnata notturna sulle colline di Bologna, ad esempio, non tarda a diventare una esercitazione letteraria con tanto di lessico alto e immagini che si accavallano come visioni:
"... ci siamo poi inerpicati sui fianchi delle colline, tra gli sterpi che erano morti e la loro morte pareva viva, abbiamo varcato frutteti e alberi carichi di amarene, e siamo giunti sopra un'alta cima...".
Ma la lettera che lo contiene, della primavera del 1941, si chiude bruscamente con la promessa di un più agevole resoconto a voce. Stufo di "fare letteratura", forse, il ragazzo Pasolini già si volgeva a colline e alberi veri. La lettura partecipata dei classici accomuna il giovane Pier Paolo alle decine di studenti brillanti che in quegli anni di oscuramento culturale cercano un po' di luce, ma essa risulterà soprattutto - e noi oggi possiamo capirlo anche dalle sue lettere - un inconsapevole cursus non solo letterario, preludio di poesia (e vita) futura. Tanto più che, iniziati a Bologna gli studi universitari, cominciano a susseguirsi le estati a Casarsa, la "patria" materna dove Pasolini fa la scoperta-invenzione della lingua, quella parlata friulana di ca' da l'aga che sarà per più di un decennio il nucleo del suo lavoro di poeta.
"Quando ho scritto sblanciada da li rosis avevo venti anni.... certo nessun casarese ha detto sblanciada da li rosis, ma come nessun fiorentino ha detto quel rosignol che si soave piange (si parva..). Sono i rapporti tra le parole che il poeta deve inventare, ossia la sintassi. E' la sintassi che deve essere interiorizzata. Quindi la mia sintassi non è friulana perché è mia: ma è la sintassi friulana che determina la mia...".
Così scrive nel 1953, ormai stabilitosi a Roma, all'amico udinese Lugi Ciceri. Lingua del popolo e ricerca di uno stile formano la materia poetica che segnerà, con diverse gradazioni, l'intera opera creativa di Pasolini.
Che sia questo il nodo originario della sua "vocazione", un nodo che stringe forte, e dolorosamente, anche la vita intima e i suoi difficili chiarimenti, lo confermerà lui stesso in un'altra lettera retrospettiva indirizzata a Vittorio Sereni:
"Alternavo come succede nell'adolescenza, un'estrema gaiezza, e in me era la foy poetico-religiosa dei provenzali, a estremi sconforti. Niente capacità oggettivo-realistiche, quindi, il mondo era inconoscibile se non in una figura leggendaria e poetica. Di qui, forse, una certa maggiore validità della mia poesia friulana in cui l'ambiente era puramente poetico, ma c'era...".
Nell'accurata cronologia che precede l'epistolario, e che riporta lunghi brani dei "Quaderni rossi", il diario segreto di Pasolini degli anni 46-47, Naldini afferma che le poesie in lingua di quel periodo
"pongono la figura del poeta su un grandioso piano confessionale e il mondo umile che gli sta intorno in una prospettiva mitica con forti scorci di vicende reali e simbologie. Le poesie friulane nascono invece con immediatezza, si formano quasi da sé".
Sebbene sia stata dimostrata di recente l'importanza della tradizione, soprattutto metrica, nel canzoniere friulano, se ne può trarre l'ipotesi che i versi scritti nella "lingua della madre" servissero anche a rendere oggettivi - cioè riconducibili ad un "sereno" scenario popolare - i tortuosi percorsi psicologici e culturali che nei versi in italiano si caricavano di una più evidente letteralità. Ma e' un discorso che potrà farsi solo quando il vasto ciclo dell'opera poetica di Pasolini sarà offerto in una, ormai necessaria, edizione critica.
Anche negli occhi di guerra e durante l'occupazione nazista l'attivismo frenetico di Pasolini non conosce soste. Le iniziative più ricche di significato in quel periodo sono la "scuoletta" allestita a Versuta per i ragazzi rimasti senza aule né insegnanti, e la costituzione della "Academiuta di lenga furlana" che produrra', tra il '44 e il '47, i cinque numeri dello "Stroligut di ca' da l'aga" piu' le quattro raccolte poetiche pasoliniane che seguono la prima, Poesia a Casarsa. L'impeto pedagogico che lo anima, indagato negli ultimi anni da Andrea Zanzotto e da Enzo Golino, è testimoniato qui dall'intero carteggio con Gianfranco Contini, il quale ne occupa, come "maestro" il vertice più alto, nonché dalle molte lettere piene d'istruzioni ed esortazioni agli "allievi" Nico Naldini, Tonuti Spagnol, Cesare Padovani. Dai parlanti del Friuli ai giovani infelici degli anni settanta, passando per i ragazzi di Roma, la passione pedagogica di Pasolini attinge a una materia, che è poesia, ideologia, politica. Se questo è vero, la rilettura del Pasolini comunista, eretico, corsaro - che secondo Franco Fortini è l'iniziativa critica da privilegiare rispetto a qualsiasi altra chiacchiera su di lui - dovrà iniziare dal "poeta in dialetto", e forse finire con l'estremo ciclo friulano La meglio gioventù scritto nel 1974, che il suo autore reputava non meno corsara degli interventi sul "Corriere della Sera".
Torniamo al laboratorio degli anni quaranta. Dopo la morte del fratello Guido, partigiano del Partito d'Azione, Pasolini matura l'adesione al marxismo e nel '47 si iscrive al Pci. Si apre un triennio di militanza durante il quale amplia l'opera in versi e fa lievitare il "romanzo politico" che diventerà Il sogno di una cosa. Com'è noto, alla fine del '49 un processo per atti osceni, manovrato dalla Dc locale, provoca l'espulsione di Pasolini dal partito, la perdita dell'incarico di insegnante, l'abbandono di gran parte degli amici e ammiratori sparsi nella regione, il crollo definitivo della precaria situazione familiare e infine la partenza per Roma, in compagnia della madre, nel gennaio 1950. Pochi mesi prima scriveva a Silvana Mauri:
"La mia malattia consiste nel non mutare, mi capisci vero? 'Diventare felici è dovere' (Gide), questo è stato l'unico dovere della mia vita, e l'ho compiuto con accanimento, lo strazio e la malavoglia che il 'dovere' comporta".
Lo scenario friulano, scomparendo, svela una vitalità maturata nella solitudine e nel lavoro, una "sapienza di sé" che non è felicità, è pienezza e presenza di un corpo ormai "gettato nella lotta". La corrispondenza con Silvana Mauri, già parzialmente nota, ne dà un progressivo e appassionato chiarimento, e così altre lettere scritte nella "stanzetta" di Casarsa, diventata soffocante come il Friuli.
Pasolini a Roma è poverissimo e sradicato: ma l'impatto con l'universo degli emarginati dà vita a una "folgorazione linguistica" che inaugura il secondo tempo della poesia dialettale. Il prepotente imporsi di quella nuova realtà linguistica prima ancora che sociologica, gli consente di arricchire il binomio lingua-stile con un divorante impegno alla mimesi, cui concorre il suo marxismo anti-istituzionale e una rinnovata "competenza di umiltà" (Contini). Le lettere di questo periodo (1950-52) tendono a far dimenticare le sue quasi disperate condizioni materiali: la primavera di Roma sa "di stracci bagnati e seccati al caldo, di ferrivecchi, di scarpate brucianti d'immondizie", mentre l'aria ha un profumo che è "come un enorme parafango scottato dal sole". Ancora una volta la realtà "unico idolo", crea lo stile, e di questo procedere uno dentro l'altro si trovano tracce rilevanti nelle lettere ai nuovi amici (Leonardo Sciascia, Vittorio Sereni, Carlo Betocchi, Giacinto Spagnoletti), in cui sono testimoniate le fasi preparatorie di "Officina" e l'ultimazione di Ragazzi di vita.
La corrispondenza che riguarda l'inserimento di Pasolini nella società letteraria - tra le meno interessanti del volume - danno tuttavia l'impressione che, nonostante il prestigio acquisito in poco tempo, egli si trovi ancora ben di qua della data cardine della sua carriera, quel 1955 che gli darà, con l'uscita di Ragazzi di vita, successo e "immagine". Questa prima parte dell'epistolario si ferma al 1954: un modo per dire che "dopo" niente sarebbe stato come prima?
[da "il manifesto" del 20 marzo 1987 - per gentile concessione]
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