Pier Paolo Pasolini
La saggistica
Pasolini e le ultime illusioni
di Franco Fortini
da il "Corriere della Sera" (1977)
(su Le belle bandiere).
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Questi dialoghi con i lettori sono soprattutto dialoghi con dei comunisti, anzi con il comunismo italiano. C'è spesso, del Pasolini migliore, non solo l'ininterrotto calore della mente, la volontà di capire e di essere capito, e quella pazienza pedagogica che Zanzotto ha così bene messo in evidenza; c'è anche - e anche questo fa parte del Pasolini migliore - una volontà di essere accettato, di avere un pubblico visibile.
Sono di quelli cui ha dato e continua a dar noia la mitografia editoriale su Pasolini; di quelli che preferiscono inoltrarsi odiosi, incomprensivi, ingiusti - ché tale sono stato con Pasolini vivo - piuttosto che spartire una qualità di ammirazione e di liturgia repellente, in particolare quella votata alla memoria necrofila dell'assassinato. Essa mi pare non troppo diversa dalla diffamazione a bassa voce che della sua poesia va diffondendosi ad opera di quelli cui egli aveva, da vivo, data troppa ombra. Eppure m'è difficile resistere alla simpatia per queste pagine: ricchissime non solo di 'chiavi' per le più complesse opere del loro autore ma soprattutto per due costanti, fra loro congiunte, quella del rapporto fra socialismo e cristianesimo e quella della riflessione sul linguaggio. Quest'ultima (mi fa notare la sensibilità, anche professionale, di Pier Vincenzo Mengaldo) è qui al centro di alcuni dei passi migliori: l'intelligenza poetica di Pasolini gli fa intendere che per lui, ossia per la sua opera, i temi e gli interrogativi del linguaggio traspongono proprio quelli, etici e politici, dell''umile Italia' cattolica e della 'speranza' comunista. Avverti qui quasi tutti i nessi dolorosi e vitali di una fase di liquidazione, ossia di una ancora forte capacità poetica che sta però lasciando la pagina lirica per l'avventura cinematografica.
Il tono con cui Pasolini parla ai suoi corrispondenti ha l'appassionata capacità di speranza che fu degli anni Cinquanta. Non è lontano neanche l'accento del "Politecnico". E nello stesso tempo avverti qualche impazienza e delusione. Quelli che scrivono a "Vie Nuove" e gli argomenti ai quali si chiede risposta, sempre più si rivelano lontani dalla 'base' postresistenziale mitizzata e sempre più subalterni alla cultura piccolo-borghese. Pasolini a poco a poco avverte la impossibilità di mantenere un dialogo che si svolge ormai su temi invecchiati. Prepara e inizia (dopo il Vangelo e il suo successo internazionale) quella dilatazione, anche geografica, dei propri interessi che egli formulerà spesso come allontanamento da una patria che non vuole comprendere più e che si tradurrà nella spirale di angoscia, di chiaroveggenza e di autodistruzione dei suoi ultimi anni.
In questi dialoghi giornalistici si consuma una delle ultime illusioni postresistenziali: quella di un dialogo, appunto, fra un 'popolo' e un 'intellettuale' sotto il segno di un grande partito democratico-popolare. È impressionante, qui, l'assenza di riferimenti al moto intellettuale e politico che veniva crescendo in Lombardia e in Piemonte, o la incredibile sottovalutazione di quanto stava accadendo in Cina e nel Sudest asiatico. La scena, appena accennata, della incomprensione fra gli intellettuali di Praga e l'ospite Pasolini; quella, ancora più recente e ancora più grave, dell'incontro con Lukács, danno la misura di come il poeta delle Ceneri fosse entrato negli anni Sessanta con una incomparabile vitalità ma con un bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero; che era poi quello di "Officina". E questo può spiegare tanto l'impeto dei suoi interessi linguistici e semiologici degli anni successivi, con cui ritrovava gli studi e i maestri di vent'anni prima, quanto l'incomprensione degli anni 1967-70, fisso come rimase ad una immagine mitica del Nord industriale e contadino (Teorema) e alla irritata, e irretita, di una Roma popolata da studenti neoborghesi.
Credo che queste pagine scritte in difesa di un ottimismo che di giorno in giorno si allenta e corrompe saranno molto utili non tanto a chi voglia conoscere qualcosa di ignorato sulla persona poetica di Pasolini quanto a chi voglia comprendere il decennio che va dalle rivolte in Polonia e Ungheria a quelle della gioventù europea. Un ottimismo e una illusione che gli ultimi tempi hanno distrutto, distruggendo quindi anche Pasolini. Si contempla oggi stupefatti la somma delle menzogne 'democratiche' che ormai dalla quasi totalità dell'orizzonte le parti politiche ci vengono raccontando e che zelanti intellettuali vanno ripetendo. Chi, come me, è persuaso che continuando per la via presente l''ordine' porterà, nel giro di qualche anno, alla pratica generalizzazione della tortura sul territorio nazionale, anche in pagine come queste si interroga sul punto sociale e politico che proprio in quegli anni, fra il 1960 e il 1965, avrebbe indotto, in Italia e nel mondo, l'accelerazione del secondo quinquennio, e poi il contraccolpo di una reazione durissima. Questa ha immobilizzato e medusato tutta una generazione europea, ha ucciso i più sensibili e generosi, ha travolto nella destabilizzazione ideologica anche i maggiori centri di attività intellettuali, ha restituito milioni di giovani all'angoscia personale e lasciato le redini della società europea a politici senza speranza.
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