Il teatro

Pier Paolo Pasolini
Il teatro
 

Pasolini, il "teatro di Parola"
contro la chiacchiera e l'urlo
di Federico De Melis
[pubblicato dal "manifesto" del 19 maggio 1993]


In un'intervista concessa alla "Stampa" mercoledì 5 maggio (1993 n.d.a.) Luca Ronconi, nel presentare i suoi tre spettacoli pasoliniani - Affabulazione, Pilade e Calderón -, ha ridotto il discorso di Pasolini contenuto nel famoso Manifesto per un nuovo teatro, uscito su "Nuovi Argomenti" nel gennaio-marzo del '68, all'idea di un "teatro declamato" contrapposto al teatro "diretto", il teatro-teatro. Parlando della "diffidenza" di Pasolini per i "teatranti", Ronconi dice che "era quella di tutti i letterati, per i quali il teatro era fatto letterario e, al massimo, tolleravano un genere di rappresentazione degradata, volutamente miserabile sul piano estetico". Così sembrerebbe che la polemica di Pasolini contro il "teatro della chiacchiera" (definizione mutuata da Moravia), cioè il teatro borghese, e contro il "teatro del Gesto o dell'Urlo", il teatro antiborghese, fosse il frutto di una repulsa a priori e corporativa per il teatro, e non, invece di un ragionamento su di esso, in una specifica situazione storica.
Oggi che Pasolini torna ad essere rappresentato è forse utile ricordare i termini di quel ragionamento. Per dedurne, magari, una sua totale inattualità a venticinque anni di distanza, in una situazione in cui almeno uno dei bersagli polemici di Pasolini - il teatro underground - è venuto meno, integrato, con risultati anche alti, nel teatro dell'establishment (come previsto da lui), il mondo dei mass-media (cinema e televisione), che per Pasolini si era sostituito come "rito sociale" al teatro, si è espanso a dismisura, e la "classe" intellettuale marxista su cui Pasolini fondava la sua nuova idea di teatro non esiste più.
Pasolini riteneva che con Bertolt Brecht e la sua teoria dello straniamento si fosse consumata l'ultima possibilità per il teatro borghese, di rinnovarsi all'interno. Che fosse necessario fare un'opera di demistificazione attraverso la quale sarebbe stato che il teatro in quanto teatro si fondava ormai sul nulla. Esso, sia nella sua accezione borghese che antiborghese, non esisteva piu' in quanto prodotto organico di un contesto sociale, ma come frutto di un mistico atto di volontà "il teatro è il teatro": soltanto in termini tautologici il senso comune riusciva a spiegare che cosa fosse il teatro.
Se per opporsi alla chiacchiera del teatro ufficiale i gruppi che si riunivano nelle cantine (tra cui non mancavano oggetti di ammirazione per Pasolini, come lo "stupendo" Living Theatre, Grotowsky e il "caso straordinario" di Carmelo Bene) intendevano recuperare, attraverso la disarticolazione del linguaggio e soprattutto la presenza ossessiva del corpo, le radici orgiastiche, propiziatorie, magiche, dionisiache, in una parola religiose del teatro, espunte dalla tradizione borghese, che a partire da Shakespeare e Calderón fonda il teatro come "rito sociale", ebbene, questo tentativo era destinato al fallimento: non potendo recuperare organicamente le sue radici religiose, il "teatro del gesto o dell'urlo" finiva, intellettualisticamente, per affermarsi in quanto "rito teatrale": la sua religione era il teatro.
In questo, Pasolini non si differenziava dal teatro borghese, il quale, privo ormai della sua funzione sociale, che non fosse un'epigonale e deprimente "chiacchiera" mondana promossa "dallo spirito conservatore borghese", spiegava "la sua presenza e la sua prestazione (così poco richiesta) come un atto mistico: una messa teatrale, in cui il teatro appare in una luce così abbagliante da accecare completamente". Se l'attore tradizionale, nel recitare, "sente vagamente di non partecipare più a un avvenimento sociale, trionfante e del tutto giustificato", reagisce alla sua disperazione con una falsa coscienza, "intransigente, demagogica, e quasi terroristica", della "verità" del teatro.
Contro il teatro borghese e antiborghese, due facce dunque di una stessa medaglia, Pasolini teorizzo' il "teatro di Parola" - così come, polemicamente verso l'industria cinematografica aveva inventato il "cinema di poesia". Il "teatro di Parola" si proponeva di rinunciare all'intero apparato del teatro "naturalistico" - scenografie, costumi, musiche, azione scenica - per rimettere al centro come cuore pulsante la parola, ormai elusa nella chiacchiera o nell'urlo. Pasolini non nascondeva di rifarsi esplicitamente "con candore neofitico", alla tragedia greca, "il teatro della democrazia ateniese", eclissando l'intera tradizione del teatro borghese. E' un momento, la seconda metà degli anni '60, in cui assai problematicamente si pone per lui, nel cinema, il problema del "destinatario". Al "popolo" subentra la "massa", un indistinto pubblico piccolo-borghese contro il quale realizzerà, nel '68 e nel '69, i suoi film più esclusivi, più complessi, "d'avanguardia": Teorema e Porcile. Il pubblico teatrale, per quanto infiltrato da questa modificazione "antropologica", che in ultima analisi rende insensato il teatro nella sua accenzione borghese, come "rito sociale", è ancora un pubblico borghese tradizionale, da riconoscere con la "chiacchiera" o scandalizzare con "l'urlo". Il "teatro di parola" rinuncia a questo destinatario: il suo pubblico è costituito dai gruppi avanzati della borghesia - gli intellettuali - e attraverso di essi, marxisticamente, alla classe operaia. Per la quale Pasolini rievoca nel suo Manifesto, contro "un operaismo dogmatico, stalinista, togliattiano", "la grande illusione di Majakowsky, di Essenin".Ma che cos'è il "teatro di Parola"? 
E' una rappresentazione che a partire dal "rito politico" della tragedia greca - ormai irrecuperabile storicamente - si propone come "rito culturale". Il suo "spazio teatrale" non è nell'ambiente ma nella testa. Infatti i reali personaggi di questo teatro sono le idee. Il rapporto tra autore e spettatori che appartengono alla stessa "classe" intellettuale, è più critico che rituale. In questo scambio il mediatore, l'attore, dovrà cambiare pelle: non sarà più il portatore del Verbo teatrale ma semplicemente un "uomo di cultura" che comprende il testo, facendosene "veicolo vivente". Lo "spazio teatrale" sarà dunque "frontale" perché attori e spettatori hanno un'assoluta parità culturale.
In appendice: da che cosa nasce, sul piano culturale e psicologico, l'idea del "teatro di parola", in quella seconda metà degli anni '60 che segna indubbiamente una svolta nella vita di Pasolini, con il configurarsi ormai chiaro di ciò che sara' l'Italia neo-capitalista? Una risposta scomoda può essere suggerita da alcune limpide considerazioni di Franco Fortini - nel suo Attraverso Pasolini appena edito da Einaudi - sulla rappresentazione che Pasolini vuol dare di sé negli ultimi dieci anni della sua vita, sul suo personaggio pubblico. V'è un punto in cui Fortini scrive che una "voce clamante nel deserto non può usare un microfono", come invece fa, in abbondanza Pasolini. La Parola del suo Manifesto, lungi dall'essere la parola critica e razionale e dialogante di un "nuovo teatro", può configurarsi forse, così, come la parola onnipotente e taumaturgica e profetica del poeta che si vuole libero dai condizionamenti dell'industria culturale, che contro gli omologati "recita - scrive Fortini - la parte della libertà o di una sublime schiavitù". In questo caso le considerazioni di Ronconi sul Pasolini "letterato" che disprezza i teatranti sarebbero da riportare al centro del discorso. Ma questo è solo uno spunto, tutto da sviluppare.
 


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Bibliografia

 


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