La poesia - Sommario

Pier Paolo Pasolini
La poesia

Pasolini e la poesia dialettale
di Angela Molteni
[Casa Moretti, Cesenatico - Seminario del 7-8 marzo 2002]

Pasolini e i ragazzi della sua scuola "casalinga" di Casarsa

Riviste e centri culturali di tutto il mondo hanno elaborato graduatorie letterarie di fine secolo e di significato incerto poiché non riflettono valori assoluti ma i gusti correnti degli anni '90. Ne è uscita una sorta di "classifica" dei più importanti autori della seconda metà del Novecento che ha il solo merito di essere oggettiva: si basa infatti sul numero di studi dedicati agli scrittori italiani del secondo dopoguerra da parte di quaranta centri universitari di italianistica sparsi nel mondo.

La ricerca, patrocinata dall’Unesco e pubblicata in Italia dall’editore Salerno, ha prodotto dunque una graduatoria, guidata ex aequo da Pier Paolo Pasolini e da Italo Calvino con 100 studi. Seguono Eugenio Montale con 86, Carlo Emilio Gadda con 65, Umberto Eco con 59, Mario Luzi con 52, Antonio Tabucchi con 41, Alberto Moravia con 47, Cesare Pavese con 32, Franco Fortini e Dino Buzzati con 28.

Anche se il valore di Pasolini, Calvino, Montale e Gadda, tanto per citare i primi quattro, è fuori discussione, non è detto che siano soltanto le scelte universitarie a determinare una sorta di "scala di valori": vi sarebbe certamente anche l'elemento costituito dai lettori, il cui gradimento in ultima analisi è essenziale per decretare il successo nel tempo di uno scrittore. Ma di tale aspetto la ricerca non ha tenuto conto. Tutto ciò che può essere indicato dalla classifica è che il linguaggio di questi autori è capace di superare i patri confini, anche se i dialetti geniali di Gadda o le lingue friulana e borgatara di Pasolini non sono proprio universali; il che non è poco in tempi di globalizzazione e di crisi delle identità.

Per misurare tutta la grandezza di intellettuale e di artista di Pier Paolo Pasolini, largamente considerato - al di là di ricerche e sondaggi e della disattenzione che gli è ancora riservata dalla maggior parte delle imprese editoriali scolastiche (o forse anche dalle scelte di alcuni docenti) - come uno dei più straordinari personaggi della cultura italiana del secolo da poco trascorso, non si può ignorare il rapporto che ha legato Pasolini al dialetto materno, il friulano di Casarsa della Delizia, un minuscolo paese della riva destra del Tagliamento, così come ad altri dialetti italiani a partire dal vero e proprio linguaggio gergale delle borgate romane fino al napoletano con cui, in un modo che può apparire del tutto inatteso, Pasolini ha caratterizzato magistralmente, per fare un solo esempio, alcuni personaggi delle Novelle di Boccaccio nella versione cinematografica di Decameron da lui realizzata nel 1970-71.

Da appassionato studioso di linguistica qual era, a Pasolini risultò assai chiaro che una poesia e una cultura non nascono dal nulla: assumono una fisionomia e prendono spunto da esempi, e su tali esempi è possibile calare un linguaggio e formarsi uno stile. Il libro che Pasolini ebbe maggiormente presente in questa ottica fu I canti del popolo greco di Niccolò Tommaseo. La coralità di quei Canti, le cento voci che vi dialogano, le cento storie che vi si intrecciano (d'amore, di morte, di guerra) compongono l'affresco di un mondo popolare ideale, trascritto in una lingua vibrante, incorrotta.

I contenuti di questi Canti sollecitarono l'immaginazione "dialettale" del giovane poeta, alimentando in lui la nostalgia di un universo esprimibile attraverso un linguaggio mai toccato da inchiostro. Pasolini definirà questa sua posizione nel saggio del 1952 su La poesia dialettale del Novecento - ora anche in Passione e ideologia, una raccolta di saggi pubblicata nel 1960 -, scrivendo in terza persona di se stesso quale autore di Poesie a Casarsa:

"Bisognava forse, per portare il Friuli a un livello di coscienza che lo rendesse rappresentabile, esserne sufficientemente staccati, marginali, non essere troppo friulani e, per adoperare con libertà e con un senso di verginità la sua lingua, non essere troppo parlanti. Il "regresso", questa essenziale vocazione del dialetto, non doveva compiersi dentro il dialetto: da un parlante (il poeta) a un parlante presumibilmente più puro, più felice: assolutamente immediato rispetto allo spirito dell'inventum; ma essere causato da ragioni più complesse, sia all'interno che all'esterno; compiersi da una lingua (l'italiano) a un'altra lingua (il friulano) divenuta oggetto di accorata nostalgia, sensuale in origine (in tutta l'estensione e la profondità dell'attributo) ma coincidente poi con la nostalgia di chi viva - e lo sappia - in una civiltà giunta a una sua crisi linguistica, al desolato, e violento, "Je ne sais plus parler" rimbaudiano".
Così, retrocedere alla "lingua materna" appare a un tale poeta "straniero" il modo più efficace per esprimere tutti i momenti sentimentali e appassionati dell'esistenza. Ma quella lingua non è assunta in sé: è utilizzata per rinverdire antichi modelli, tutti i possibili modelli illustri, né gergali né dialettali.

Narrerà più tardi Pasolini in Empirismo eretico (un volume che raccoglie suoi saggi sulla lingua, la letteratura, il cinema) con un racconto suggestivo ed estremamente particolareggiato, che era un ragazzetto e stava sul balcone di casa sua quando udì improvvisamente, nella strada, un giovane pronunciare la parola rosada (rugiada). Fu come folgorato da una intuizione subitanea:

"Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono".
[…]
"Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito […]. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino allora era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".
Da allora, Pasolini non può che rifarsi a uno dei grandi miti della poesia simbolista: la ricerca di una lingua pura, vergine di ogni consumo ed elaborazione letteraria, attinta nel suo stato nascente dentro la congerie delle lingue nate dal latino volgare.

Tuttavia l'uso del friulano nelle poesie dei primi anni Quaranta, in parte ha ancora il valore di una citazione di colore locale. Il viaggio al cuore della lingua materna nasce da un’attenzione del poeta ai particolari anche minuti della vita quotidiana, alla creatività che egli sa cogliere nelle parole dei contadini, al loro attenersi alle regole d’onore della lingua senza temere di variarla con personali e azzardate invenzioni.

Pasolini si rivolge a questo mondo: parla una lingua diversa ma, benché estraneo a questo universo, chiede di appartenervi. Il piccolo mondo di Casarsa non è da lui proposto come una sorta di ricovero rassicurante e regressivo, anzi, viene dichiarata, con sempre maggior forza, la sua qualità di rappresentazione della realtà, sia essa degli istinti, della tradizione, della storia o del mito.

Pasolini inizia dunque in assoluto la propria esperienza poetica nei primi anni Quaranta, scrivendo versi nel dialetto friulano di Casarsa e traducendo in casarsese poesie di altri autori, soprattutto stranieri.

Nato a Bologna nel 1922, Pasolini ha trascorso l'infanzia nella piccola Casarsa della Delizia, il paese originario di sua madre. La famiglia si trasferisce poi a Parma, in seguito a Conegliano, poi a Belluno.

E i trasferimenti continuano: a Sacile, ancora a Conegliano, a Cremona. Pasolini con la famiglia va a vivere quindi a Scandiano, vicino a Reggio Emilia e in quest'ultima città frequenta il ginnasio; termina il liceo a Bologna e là, all'inizio di autunno 1939, a poco più di diciassette anni di età, si iscrive all’Università, facoltà di Lettere, dove i suoi interessi culturali diventano ben presto vere e proprie "passioni", rivolte soprattutto alla filologia romanza e all'estetica delle arti figurative (avrà tra l'altro come docente in quest'ultima disciplina un celebre critico d'arte, Roberto Longhi).

Nella primavera del '42, prima del soggiorno estivo tradizionale, Pasolini torna temporaneamente al paese materno e scrive agli amici:

"Che brutto paese è Casarsa! Non c'è niente. È tutta morale, niente bellezza: la maleducazione paesana dei ragazzi, la malignità delle femmine, la polvere grigia e pesante delle strade. Tutto ha perduto il mistero onde la fanciullezza lo circondava; ed è nudo e sporco dinnanzi a me: ma questo è un nuovo incanto, un nuovo sogno, e un nuovo mistero".
Su questa "patria friulana" Pier Paolo Pasolini si esprime ancora in questi termini, scrivendo a un altro amico:
"Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma, perché vivo sempre proiettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto faccio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo".
Ma durante i soggiorni bolognesi Pasolini non può fare a meno di provare nostalgia per Casarsa, scoprendo così di amare quei posti e le persone che vi abitano, e di essere indissolubilmente legato all'originaria lingua materna.

1942: è tempo di guerra e di bombardamenti su grandi e piccoli centri italiani. Susanna Pasolini decide di trasferirsi da Bologna con i due figli, Pier Paolo e Guido, a Casarsa. In quei luoghi, nei quali ogni gesto che fanno coloro che sono intorno a Pasolini chiede una collocazione nuova nella sua immagine del mondo, Pasolini scrive quello che sarà il suo primo libro pubblicato, Poesie a Casarsa: il volume è del 1942, la lingua utilizzata è il friulano, l’editore è la Libreria antiquaria Mario Landi di Bologna; la dedica è a suo padre.

Gianfranco Contini, in quegli anni insegnante di filologia romanza a Friburgo, ricevette quel volume dal libraio Landi, suo amico, e comunicò a Pasolini che le poesie gli erano piaciute e le avrebbe recensite. "Ho saltato e ballato per i portici di Bologna", dirà a sua volta Pasolini ricevendo quella notizia. La recensione di Contini è uno dei documenti più significativi sulla poesia in friulano di Pier Paolo Pasolini.

Gianfranco Contini - linguista e critico, studioso in particolare di letteratura romanza e contemporanea che sarà in seguito ordinario di filologia romanza anche all'Università di Firenze -, ricorderà spesso nei suoi scritti e negli interventi a conferenze e seminari cui partecipò nel corso della sua lunga carriera accademica che la letteratura italiana è l'unica grande letteratura nazionale per la quale il dialetto è una parte integrante e ineliminabile.

E aggiungerà che questa profonda verità, troppo spesso dimenticata, e offuscata dal persistente pregiudizio del dialetto come strumento espressivo inadeguato ed "inferiore", si è venuta affermando con indiscutibile perentorietà negli ultimi decenni, grazie a una inaspettata e quanto mai rigogliosa fioritura di poesia in dialetto.

Una profonda verità, tra l'altro, di cui anche Casa Moretti è in parte depositaria per il significativo contributo conferito alla letteratura dialettale con la sua Mostra "Caro gergo natio". Letteratura in dialetto di Romagna, tenutasi a Cesenatico tra giugno e settembre del 1996.

La poesia dialettale rappresenta senza dubbio uno dei fenomeni più importanti, pregnanti e caratterizzanti della letteratura italiana del Novecento; ha rimesso in discussione il concetto stesso di letteratura dialettale, poggiando anche su un proliferare senza precedenti di studi, di convegni, di libri, di dibattiti, aprendosi varchi sempre più ragguardevoli nella grande editoria e soprattutto nell'attenzione del pubblico di lettori e di critici.

E infine, scoprendosi depositaria di ricche tematiche che vanno oltre i fenomeni strettamente letterari ed estendendosi ad altre discipline quali l'antropologia, la psicolinguistica, la psicologia, la sociologia e la semiotica.

La recensione di Gianfranco Contini a Poesie a Casarsa avrebbe dovuto uscire su "Primato", una pubblicazione letteraria dell’epoca, ma i responsabili del periodico, trattandosi di un commento a una raccolta di poesie dialettali, la censurarono: apparve invece sul "Corriere di Lugano" del 24 aprile 1943. Diceva, tra l’altro:

"L’odore era quello irrefutabile della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi-lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare. […] Basti senz’altro raffigurarsi innanzi il suo mondo poetico, per rendersi conto dello scandalo ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale".
Ebbene, lo "scandalo" cui fa cenno Contini era in primo luogo la trasgressione costituita dall’utilizzo letterario di un dialetto in un paese in cui il regime fascista osteggiava l’uso delle cosiddette "lingue barbare".
"Il fascismo non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali e degli idiomi di ostinati imbelli […] Ormai l’antifascismo cessava di essere puramente culturale: sì, poiché il Male lo sperimentavo nel mio caso",
commentò Pasolini. E aggiunse che provvedimenti censori di quel tipo erano la spia di un
"inconscio odio razzista che ha sempre il borghese per la lingua del popolo con il corredo di banalità razionalistiche che ogni odio irrazionale di tale genere comporta".
La censura fascista d'altronde non si accanì soltanto sull'uso dei dialetti, come ben sappiamo.

In Poesie a Casarsa, in secondo luogo, vi era lo "scandalo", anche se molto delicato, discreto e nascosto, di un sottile filo omoerotico che attraversava quelle composizioni.

Si propongono alcuni esempi significativi:

Dili

Ti jos, Dili, ta li cassis
a plòuf. I cians si scunìssin
pal plan verdùt.
Ti jos, tai nustris cuàrps,
la frescia rosada
dal timp pirdùt.

Dilio
Vedi, Dilio, sulle acacie piove. I cani si sfiatano per il piano verdino. Vedi, fanciullo, sui nostri corpi la fresca rugiada del tempo perduto.

* * *

A Rosari

Tu la ciera la ciar a pesa
tal séil a ven di lus.
No sta sbassà i vuj, puòr zòvin,
se tal grin l’ombrena a è greva.
Rit, tu, zòvin lizèir,
sintìnt in tal to cuàrp
la ciera cialda e scura
e il fresc, clar séil.
In miès da la puora Glisia
al è pens di peciàt il to scur
ma ta la to lus lizera
al rit il distìn di un pur.

A Rosario
Nella terra la carne è greve, nel cielo si fa di luce. Non abbassare gli occhi, povero giovane, se nel grembo l’ombra pesa.
Ridi tu, giovane leggero, sentendo nel tuo corpo la terra calda e scura e il fresco, chiaro cielo.
In mezzo alla povera chiesa è pieno di peccato il tuo buio, ma nella tua luce leggera ride il destino di un puro.

* * *

Dansa di Narcìs

Jo i soj neri di amòur
né frut né rosignòul
dut intèir coma un flòur
i brami sensa sen.
Soj levat ienfra li violis
intant ch’a sclariva,
ciantànt un ciant dismintiàt
ta la not vualiva.
Mi soj dit: "Narcìs!"
e un spirt cùl me vis
al scuriva la erba
cùl clar dai so ris.

Danza di Narciso
Io sono nero di amore, né fanciullo né usignolo, tutto intero come un fiore, desidero senza desiderio.
Mi sono alzato tra le viole, mentre albeggiava, cantando un canto dimenticato nella notte uguale. Mi sono detto: "Narciso!", e uno spirito col mio viso oscurava l’erba al chiarore dei suoi ricci.

* * *

Delle traduzioni italiane che appaiono sempre dopo il testo in friulano, Pasolini scriverà che egli stesso le ha stese con cura
"e quasi, idealmente, contemporaneamente al friulano, pensando che piuttosto che non essere letto fosse preferibile essere letto soltanto in esse".
È da dire, per inciso, che l'omosessualità di Pasolini, nota e con il passar del tempo sempre meno celata, costituisce un elemento fondamentale della sua produzione artistica ed è anche al centro del drammatico epilogo della sua vita. Riflettere sulla diversità come valore, a partire da Pasolini, in un mondo sempre più "meticcio" costituisce un elemento importante del suo pensiero e un'occasione per ricordare quanto la sua figura abbia pesato nel modificare, in questi anni, stereotipi radicati nella società italiana.

Le poesie friulane di Pasolini nascono come frutto di "immediata gioia espressiva", secondo un'osservazione di Enzo Siciliano (Pasolini, una vita, edito da Giunti). Una felicità espressiva dichiarata dallo stesso Pasolini, che scrive su se stesso parlando in terza persona:

"in questa gioia immediata, che egli cercava di sagra in sagra, di gioventù in gioventù, persisteva però sempre un fondo di angoscia, una tetra sensazione, di non poter mai giungere al centro di quella vita che, così accorante e invidiabile, si svolgeva nel cuore di quei paesi".
Pasolini estende agevolmente la ricerca linguistica e le proprie osservazioni all’intero Friuli, poiché, com'egli stesso fa notare:
"Era possibile in dieci minuti di bicicletta passare da un’area linguistica a un’altra più arcaica di cinquant’anni, o un secolo, o anche due secoli".
Più avanti, da queste esperienze allargate e sistematiche, nascerà per Pasolini l'esigenza di una nuova stesura delle sue poesie: la nuova edizione comprenderà Poesie a Casarsa insieme a una Suite furlana composta tra il 1944 e il 1949, a un’Appendice del 1950-1953, e a Il testament Coràn, del 1947-1952 (poesie, queste ultime, ispirate dagli eventi partigiani).

Il titolo di questa seconda pubblicazione, realizzata nel 1953, sarà La meglio gioventù (titolo che riecheggia un triste canto degli alpini della prima guerra mondiale, … la megio zoventù la va soto tera).

Il volume sarà dedicato al suo primo recensore, Gianfranco Contini. Una delle più belle poesie inserite nella nuova raccolta pubblicata nel 1953 è Cansion (Canzone). È particolarmente interessante notare, in questi versi, la particolare musicalità del friulano di Casarsa, privo di durezze anche laddove l'uso di parole tronche o delle "s" nei plurali pare interrompere l'armonia della scansione poetica:

Cansion

Lassàt in tal recuàrt
a fruvati, e in ta la lontanansa
a lusi, sensa dòul jo i mi inpensi
di te, sensa speransa.
(Al ven sempri pì sidìn e alt
il mar dai àins; e i to pras plens
di timp romai àrsit, i to puòrs vencs
ros di muarta padima, a son ta l’or
di chel mar: pierdùs, e no planzùs).
Lassàs là scunussùs
ta ciamps fores-c’ dopu che tant intòr
di lòur ài spasemàt
di amòur par capiju, par capì il puòr
lusìnt e pens so essi, a si àn sieràt
cun te i to òmis sot di un séil nulàt.
[…]

Canzone
Lasciato nella memoria a logorarti, e nella lontananza a splendere, io mi ricordo di te, senza pena, senza speranza. (Si fa sempre più silenzioso e alto il mare degli anni; e i tuoi prati pieni di tempo ormai arso, i tuoi poveri venchi rossi di un morto riposo, sono sull’orlo di quel mare: perduti e non pianti).
Lasciati là sconosciuti, in campi stranieri dopo che tanto intorno ad essi ho spasimato di amore per capirli, per capire il povero, lucente e duro loro essere, si sono chiusi con te i tuoi uomini sotto un cielo annuvolato. […]

Nel 1974, infine, con il titolo di La nuova gioventù, Pasolini darà una seconda forma alla Meglio gioventù e pubblicherà nuovamente le sue poesie friulane in una edizione riveduta e significativamente arricchita.

Franco Fortini fu positivamente impressionato dalle poesie di La meglio gioventù (edite dalle Edizioni dell’Academiuta de Lenga Furlana di Casarsa nel 1949), che conobbe in una successiva edizione (Sansoni 1964). Fortini scrive, nel suo libro Attraverso Pasolini, pubblicato da Einaudi, di ricordare in particolare El testament Coràn, una poesia di particolare bellezza dovuta a suo parere non solo a contenuti molto significativi, ma anche alla musicalità della lingua friulana. Vale la pena fare un breve cenno a questo particolare componimento.

El testament Coràn  narra di un ragazzo di sedici anni (la vicenda è del 1944), comunista, dal "cuore ruvido e disordinato". Orfano, lavorava per una famiglia di vicini, e la notte andava a prendere rane con altri ragazzi e poi si fermava con loro nel boschetto a giocare a carte e a cantare.

La domenica, con la stessa compagnia, andava "via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo". Incontra una ragazzina, Neta, di tredici anni, e va con lei… È la sua "prima volta". Scappa "pieno di ardore" a raccontare agli amici la grande novità della sua vita: ma il paese è "deserto come un mare", la casa dei vicini brucia, le luci sono tutte spente; nella piazza vede un morto, in una pozza di sangue rappreso.

Quattro tedeschi prendono il ragazzo, lo caricano su un camion. Dopo tre giorni lo impiccano "al gelso dell’osteria". Il ragazzo dichiara di lasciare in eredità la propria immagine "nella coscienza dei ricchi" e il suo ultimo "evviva" è per il "coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri". C’è nella bellissima poesia un coraggio e un eroismo che commuovono e che ispirano profondo dolore ma anche una sorta di luminosa speranza nel futuro.

Alcuni versi da El testament Coràn:

El testament Coràn

In ta l’an dal quaranta quatro
fevi el gardòn dei Botèrs:
al era il nuostri timp sacro
sabuìt dal soul del dovèr.
Nuvuli negri tal foghèr
thàculi blanci in tal thièl
a eri la pòura e el piathèr
de amà la falth e el martièl
[…]
Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs,
Coi todescs no ài vut timour
de tradì la me dovenetha.
Viva il coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!

Il testamento Coràn
Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Botèr; era il nostro tempo sacro, arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello.
[…]
Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Evviva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!

Ancora Franco Fortini, uno dei grandi poeti italiani del Novecento, che collaborerà in anni successivi a lungo con Pasolini soprattutto nella rivista letteraria "Officina", così si esprime nel suo libro già citato:
"Per Pasolini la poetica romantico-popolareggiante e la poetica veristica si sono realizzate quasi unicamente nei dialetti e "delineare una storia di questo fenomeno sarebbe forse dare un volto meglio contornato all’Italia umbertina". […] Ci si inoltra nella lettura di testi noti e ignoti, spesso straordinari, sempre rivelatori, con l’impressione di curvarsi sul mistero della nostra provincia e della nostra storia recente".
[…]
"Non è soltanto un'eccezionale intelligenza ma un poeta, con un fulmineo senso della costruzione e del particolare, dell’intonazione e delle risorse metriche. A differenza di quasi tutta la poesia del Novecento e dell’Avanguardia italiana, ha rifuggito dalla purezza, omogeneità e assolutezza: ha accettato il trucco, la maschera, la circonlocuzione, la contaminazione di stili, tecniche linguaggi, ha perseguito l’autenticità attraverso il suo opposto".
Parla di Pasolini "poeta friulano" anche Enzo Siciliano, che ha frequentato a lungo Pasolini, ha lavorato con lui (indimenticabile il personaggio dell'Apostolo Simone da lui interpretato nel film pasoliniano Il Vangelo secondo Matteo), è stato nel novero dei suoi amici. Nel suo già citato Vita di Pasolini, una biografia fondamentale all'interno del vasto panorama di libri scritti sul grande intellettuale italiano, Siciliano dice:
"Scrivere poesia in friulano legava il poeta al nucleo di quella "vita" [quella delle campagne friulane], ma, insieme, vistosamente segnava la sua lontananza e diversità da essa. Solo uno "straniero" avrebbe potuto trascegliere suono da suono, vocabolo da vocabolo nelle proprie vergini orecchie".
Pasolini, sfollato definitivamente con la famiglia a Casarsa, apre nel 1944 in casa propria una scuola per gli studenti che a causa dei bombardamenti non possono raggiungere le scuole di Udine e Pordenone. È il suo primo esperimento didattico, destinato, oltre che a essere per lui una esperienza culturale straordinaria, a lasciare una profonda traccia nei suoi allievi per la novità di quell'insegnamento: maestro e allievi sono sullo stesso piano in un interscambio continuo sia linguistico, sia di giudizi e di emozioni liberamente espressi.

Pasolini insegnò ai ragazzi, accanto ai classici italiani, greci e latini, come scrivere poesia friulana: la lirica pura e la vilota. Parlerà di questa forma poetica nel suo libro  Passione e ideologia:

"Fulminea [la durata della vilota]: alla base di tale improvvisa capacità di "rivelazione", è quasi sempre un concreto e come liturgico senso di colpa: […] il mondo del paese friulano appare intorno velato da una tristezza profonda, con le sue grigie case di sassi aggroppate sopra un desolato monticello, o tra vuoti magredi, o tra i verdi gelseti delle risorgive"
Sempre nel '44 nasce per iniziativa di Pasolini e di altri suoi amici "Il Stroligut di cà da l'aga", ovvero "Il Lunario pubblicato al di qua dell'acqua" (cioè del fiume Tagliamento), una rivista che promuove la poetica pasoliniana rivolgendosi al pubblico del paese.

"Il Stroligut" ha successo: provoca discussioni nel piccolo ambiente filologico friulano. Alcuni poeti dialettali spediscono in lettura a Pasolini i propri versi. Anche Nico Naldini scrive quattro brani poetici, ma ha soggezione del cugino e non ha il coraggio di mostrarglieli. Sarà la nonna a farli leggere a Pier Paolo. "Perché hai scritto? Per imitare qualcuno o per una tua personale necessità?", chiede Pier Paolo a Nico. Il rapporto tra i due cugini ha una svolta: Pasolini chiede a Nico di fare quattro passi con lui. Gli parla dello stile e dei sacrifici che costa; parla di Ungaretti, di Penna e di Montale. Dà da leggere all'adolescente Dedalus e il saggio di Alfredo Gargiulo su D'Annunzio. Gli parla di Sereni e di Caproni…

Sullo "Stroligut", in quella lingua friulana tanto amata, Pasolini spiega molto didatticamente ai suoi lettori, prevalentemente contadini del paese, i "segreti" del loro stesso dialetto. Vale la pena leggere almeno uno stralcio dal suo scritto, nella "traduzione" italiana che Pasolini stesso fece:

"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri?

"Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa "lingua". La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […]

"L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano.

"Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino.

"E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana.

"Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […]

"Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".

Nell'ottobre di quello stesso anno, dopo un ennesimo rastrellamento tedesco a Casarsa, al quale sfugge fortunosamente, Pasolini si trasferisce a Versuta, un villaggio composto da una serie di casolari immersi nel verde.

Pasolini e la madre Susanna, poiché a Versuta manca la scuola e per i ragazzi andare a piedi ai paesi più vicini dove vi sono scuola elementare e media costituisce un serio disagio dati i pericoli del periodo bellico, decidono di aprire proprio a Versuta una scuola gratuita.

Così, la loro piccolissima casa, costituita da non più di un ampio locale e da una cantina a piano terra, è letteralmente stipata di allievi. Quell'esperienza durerà fino al 1947, e Pasolini la considererà la più appassionante della sua carriera di insegnante.

"Cominciammo a far scuola ai ragazzi di Versuta, una ventina in tutto. Io avevo dai nove ai dodici scolari, tenevo le mie lezioni nella povera stanza che ci serviva da cucina e da camera da letto. Non credo di essermi mai dato agli altri con tanta dedizione come a quei fanciulli durante le lezioni di italiano e di storia. Osai insegnare loro (e le capivano benissimo) liriche di Ungaretti, di Montale, di Betocchi […]

Quando venne la bella stagione andammo a fare scuola in un casello tra i campi. Era molto piccolo e vi si stava appena; ma spesso si andava a far scuola nel prato; sotto i due enormi pini sfiorati dal vento […] Il Ponte della Delizia, Madonna di Rosa e la vicinissima Casarsa erano continuamente colpiti, distrutti, percossi dalle bombe, i cui pennacchi di fumo oscuravano l'orizzonte".

Intanto Pasolini continua a scrivere, in friulano e in lingua italiana. Alle Poesie a Casarsa può così aggiungere molti altri componimenti poetici nella lingua-dialetto del suo paese di adozione.

In friulano scrive anche I Turcs tal Friul che rievoca l'invasione dei turchi del 1499: riecheggia qui la situazione reale dell'attualità più crudele, con Casarsa messa a ferro e fuoco dai nazisti: anche la casa dei Pasolini verrà semidistrutta dai bombardamenti.

Oltre alla "scuoletta", a Versuta nel febbraio 1945 viene fondata l'Academiuta di lengua furlana a cui partecipa un folto gruppo di allievi; i "fantassìns" che si erano avvicinati a Pasolini per un'esigenza di istruzione. Il friulano casarsese, "lingua pura per poesia" trova linfa e freschezza nei componimenti di ragazzini scalzi con l'odore di letame nei calzoni corti e rattoppati.

"Il Stroligut" apre il sommario dell'agosto 1945 con l'atto costitutivo dell'Academiuta: "Lo stemma dell'Academiuta è un cespo di dolcetta. […] Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia, e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumenia e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza. L'Academiuta ha una sua storia brevissima". Un atto di fede squisitamente pasoliniano, che così prosegue:

"Nel nostro Friulano noi troviamo una vivezza, e una nudità, e una cristianità che possono riscattarlo dalla sua sconfortante preistoria poetica. Alle nostre fantasie letterarie è tuttavia necessaria una tradizione non unicamente orale. E questa non potrà essere la tradizione friulana, che, se ha qualche discreto poeta, è poi tutta vernacola, soprattutto nell'ottocento con la borghese "muse matarane" di Zorut.

"La nostra vera tradizione, dunque, andremo a cercarla là dove la storia sconsolante del Friuli l'ha disseccata, cioè il Trecento. Quivi troveremo poco friulano, ma tutta una tradizione romanza, donde doveva nascere quella friulana, e che invece è rimasta sterile. Infine, la tradizione che naturalmente dovremo proseguire si trova nell'odierna letteratura francese e italiana, che pare giunta ad un punto di estrema consumazione di quelle lingue; mentre la nostra può ancora contare su tutta la sua rustica purezza".

Dei "compiti a casa" assegnati da Pasolini agli allievi dell'Academiuta, rimangono tracce significative: alcuni scrivono poesie in friulano, come il già citato Nico Naldini, oggi narratore e poeta affermato, oppure Ovidio Colussi, divenuto lui stesso poeta, che, oltre a scrivere e pubblicare suoi lavori, ha conservato e pubblicato alcuni di quei componimenti con gli interventi e le correzioni dello stesso Pasolini.

Un altro allievo, Bruno Bruni, scrive tra l'altro in una sua lunghissima composizione poetica di recente pubblicazione, Il ragazzo e la civetta. Percorsi di un allievo dell’Academiuta di Pasolini (Campanotto Editore, Udine):

"[…]
Pierpaolo ti porta per mano dolcemente
attraverso le parole dei poeti
che finalmente ti si svelano
e restano dentro di te generando
originali capacità espressive
che prima non esistevano
o non credevi di possedere
scuola di poesia
di rigore intellettuale di vita
non regole declinazioni date
nomi di fiumi a memoria ma
letture discussioni confronti
la scuola non finiva mai
al pomeriggio nei campi
per le strade del paese in bicicletta
sotto un portico continuavano
le parole a creare solide basi
per costruire la vita di ognuno
nella diversità
[...]
Nico Ovidio Fedele Nisiuti
portiamo i nostri foglietti
leggiamo parole che ci sembrano
andare lontano
oltre la piccola stanza
verso i campi le rogge le foglie
che le hanno fatte nascere in noi
Pierpaolo ascolta con la testa
appoggiata a una mano
lentamente si muove l’altra mano
come per accompagnare le parole
prima che si disperdano nell’aria
nasce così Il Stroligut nell’aprile
quarantaquattro a San Vito da Primon
e con lui viaggiano le nostre voci
friulane ancora sussurranti ma orchestrate
in un coro che già sa trarre
armonie e ritmi nuovi
da tradizioni antiche ma vive e presenti
nel quotidiano vivere del nostro paese
[…]"
Un amico casarsese di Pasolini, Giuseppe Mariuz (che ha curato, una decina di anni fa, gli atti del Centro studi e progettazioni Pier Paolo Pasolini di Udine) ha pubblicato recentemente con l'editore Campanotto di Udine La meglio gioventù di Pasolini, un libro in cui raccoglie "testimonianze dal basso" ripercorrendo a ritroso nel tempo e specularmente la lunga e varia stagione "friulana" di Pier Paolo Pasolini.

Il lavoro di Mariuz consente di rileggere le ragioni dell'attaccamento di Pasolini a un mondo non ancora corroso da uno sviluppo capitalistico e consumistico negatore di vero progresso civile, i suoi riferimenti di vita e di valori, le sue successive opzioni fuori dal Palazzo e dall'omologazione.

Scrive Mariuz:

"I ragazzi che si avvicinano a Pier Paolo per un'esigenza di istruzione, e che nel febbraio del '45 formano il nucleo dell'Academiuta di Lenga Furlana, scoprono quasi con incredulità il proprio potenziale linguistico e letterario e nel contempo avvertono con il loro educatore una comune esperienza di vita e un'operazione di interscambio culturale. Il corpo centrale delle testimonianze ruota intorno a quella gioventù diseredata che popolava la campagna friulana e che assumeva in sé impeto, entusiasmo, spontaneità, candore.

"Si è data così voce alla 'meglio gioventù' che popolava i campi del Friuli e ne gremiva le piazze, si sono ascoltate storie di vita e aspirazioni di persone entrate nella biografia e nelle opere letterarie di Pier Paolo Pasolini, cercando di capire quanto egli stesso avesse inciso in quella realtà. Se da un lato andavano precluse le tentazioni alla leggenda, all'oleografia e all'aneddotica, dall'altro si è tenuto conto di ricomporre un quadro di memorie storiche che fosse il più possibile fedele a quei valori e non alterato dall'influsso delle trasformazioni economiche, sociali e antropologiche avvenute nel corso di oltre quarant'anni".

Un brevissimo "campionario" delle testimonianze raccolte da Giuseppe Mariuz viene qui proposto:
"(Walter) Noi, allievi 'pasoliniani', ci ritroviamo ogni anno magari per una pizza. Lo facevamo anche quando il nostro professore era vivo, è lui che ci ha insegnato la solidarietà, il valore dello stare insieme.

"Lo abbiamo sempre giudicato per quello che ci ha dato, veramente tanto. Era per noi il fratello maggiore. Qui, presso l'osteria della mia famiglia, lui qualche domenica veniva anche a cena, e poi si fermava a ballare. Se gli veniva l'ispirazione, mollava il ballo, prendeva la borsa che portava sempre con sé a cavallo della bicicletta e andava a battere sulla macchina da scrivere che il prete gli prestava. Poi tornava a ballare.

"Aveva tanta umanità e disponibilità. È lui che al pomeriggio, dopo scuola, ci ha insegnato a giocare al pallone, in particolare il doppio passo alla Biavati. Aveva ampia visione di gioco ed era velocissimo all'ala. Siamo andati con la nostra squadra in bicicletta, in fila indiana, a giocare a Sacile e anche al don Bosco di Pordenone; al ritorno, ai Tortiglioni di Casarsa, ha pagato di tasca propria il gelato a tutti noi.

"Era contrario ai giocattoli comperati, preferiva che prendessimo un cartone o una tavola e ci applicassimo due ruote di legno, per sfruttare la fantasia, se no, lo diceva lui, si diventa idioti.

"Ci rendeva la scuola leggera. C'era un alunno di nome Giancarlo Mantovani, noi lo chiamavamo 'Monte Grappa' per la sua testa grossa. Un giorno Pasolini spiegava i complementi di argomento e lo aveva chiamato alla lavagna; gli ha fatto tradurre 'Cicero disputavit de dura cervice Mantovani'. Insegnava il latino anche attraverso battute e vignette.

"Aveva la poesia nel sangue. Durante un'ora di lezione, per esempio dalle undici a mezzogiorno, ci chiedeva di inventare dei versi che scrivevamo in friulano."

"(Marianna) A primavera ci portava fuori, in campo sportivo, a studiare. Noi stavamo seduti in circolo, e lui in mezzo ci faceva lezione. Non ci distraevamo, perché aveva un forte potere di attrazione e quasi ci incantava. Non si creda che fossimo plagiati.

"Avevamo il piacere di studiare e il piacere di dargli soddisfazione, perché lui lo desiderava. Con qualche eccezione, s'intende.

"Un giorno ci aveva assegnato di comporre delle frasi, ma noi eravamo svogliati. Quando è passato per i banchi e si è accorto che nessuno aveva lavorato, si è trasformato: tremava la mascella, stava zitto a guardar fuori.

"Non si sentiva volare un mosca, e ci siamo vergognati per avergli dato un dispiacere. Era un metodo di insegnamento che ci coinvolgeva, perché non ci trattava solo da alunni, ma molto di più."

"(Luigi [Gigion]) Io ero di famiglia contadina, possedevamo della terra e la casa. Mio padre aveva anche ottenuto una licenza di osteria, grazie al fatto che era invalido di guerra.

"I Pasolini venivano a Casarsa in estate, nella casa qui di fronte dei Colussi "Batistons" - della madre, delle zie e della nonna di Pier Paolo - e in pratica ci siamo sempre conosciuti. Da loro ho ascoltato la prima radio, non ce n'erano altre. Io mi sedevo nel giardino esterno, non potevo entrare, perché ero vestito male e avevo un certo ritegno.

"Loro erano di famiglia più elevata, ma Pier Paolo stava bene con tutti, era sempre a torzeòn (in giro).

Pasolini con la squadra di calcio del Casarsa

"Giocava anche al pallone, nella squadra del Casarsa; era allora molto giovane, non aveva compiuto vent'anni. C'era severità anche nello sport, entrava in campo solo una cerchia ristretta, e poi, chi aveva i soldi per comperare le scarpe da pallone? I giocatori, compreso Pier Paolo, si spostavano in trasferta in bicicletta, a Spilimbergo, San Daniele, Codroipo, San Vito.

"Suo fratello Guido, più giovane, era bonaccione, sempre sorridente, ma si vedeva più di rado. Il padre di Pier Paolo e di Guido, quando veniva a Casarsa, era piuttosto solitario, non integrato nell'ambiente. Nella stessa casa abitava anche il cugino Nico Naldini, che era spesso con noi, specie con mio fratello."

"(Dino) Ce l'ho ancora davanti agli occhi al Tagliamento: piccolo, atletico e muscoloso. In estate ci trovavamo spesso a nuotare, tra Rosa e Carbona, in dieci, quindici, venti. Per noi era un periodo transitorio: non studiavamo più e lavoro non ce n'era.

"La sera, al ritorno, rubavamo qualche pesca, un po' d'uva aspra, quel che si poteva trovare nei campi, e via.

"Pier Paolo cercava di farci capire quello che non sapevamo, di letteratura, di pittura. Con noi parlava sempre in friulano. Solo in caso di necessità, con altra gente che non capiva, usava il dialetto [veneto di terraferma] o l'italiano.

"Era un comunista per cercare l'uguaglianza, perché questa gente potesse vivere meglio. La chiesa allora difendeva i padroni, non di certo noi.

"Pier Paolo non ce l'aveva con la religione, ma con quelli che la predicavano male.

"Gli piaceva stare con noi semplici, ci sentiva di sentimenti sinceri, sani da cima a fondo, onesti anche se rubavamo una zucca, era per non morir di fame. Se c'era una scodella di vino, si divideva fra tutti.

"Faceva le battaglie per i contadini perché li ha visti soffrire, nella loro miseria e anche nella sottomissione ai padroni. Non voleva eliminare i padroni o la proprietà, ma che tutti potessero vivere con dignità. Non l'ho visto partecipare direttamente alle lotte contadine, ma si informava e forse guidava il movimento assieme ai responsabili sindacali e politici."

Ne esce un profilo di Pier Paolo Pasolini pienamente inserito nel contesto ambientale e sociale, con qualità che sommano, in un tutto indistinto e sinergico, ammaestramento letterario e civile, vita di relazione e divertimento: invenzione di poesie e balere, manifestazioni sportive e di piazza.

Nel 1972, in una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi, Pasolini indica in quella stessa sfera di persone, conosciuta in Friuli e poi dilatata alle borgate romane e poi ancora estesa al terzo mondo, i portatori dei suoi valori culturali:

"Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica in questa mia affermazione: non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese [...] è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice".
In Friuli, frattanto, Pasolini è diventato un personaggio pubblico. Una fotografia lo ritrae tra i fondatori della Federazione provinciale comunista di Pordenone. Tiene conferenze, comizi, dibattiti. Scrive in prima pagina su diversi quotidiani della regione. Quanto alla letteratura, non è più soltanto il promettente scrittore e glottologo che stampa "Il Stroligut". Collabora a "La Fiera letteraria": polarizza l'attenzione non più degli scrittori friulani, ma anche di altri giovani di non ristretto ambito provinciale.

Ha molti amici. E fra questi, il pittore Giuseppe Zigaina. Quest'ultimo accompagna Pasolini in bicicletta nelle ricerche glottologiche per i borghi della pianura. Dal loro sodalizio nasce un volumetto, Dov'è la mia patria, poesie pasoliniane scritte tra il 1948 e il '49, stampate con disegni di Zigaina per le edizioni dell'Academiuta nel 1949. Si tratta di strofe raccolte sulle labbra dei "parlanti", e la parlata originale è mantenuta scrupolosamente intatta, da Caorle, da Valvasone, da Cordenons, da Pordenone: un'intera geografia linguistica trascritta nel ritmo del poeta.

All'inizio del 1950 Pasolini si trasferisce a Roma. La città davanti a lui è un interrogativo angoscioso. Ma è anche una "città divina!", come si affretta a comunicare agli amici rimasti in Friuli.

L'Italia era a quell'epoca un paese duramente colpito dagli esiti della seconda guerra mondiale. Le città distrutte, in attesa di una ricostruzione pianificata ma che procedeva a rilento, avevano generato un gran numero di senzatetto che vivevano ai margini del territorio urbano. Baracche addossate le une alle altre, che è eufemistico definire precarie, si succedevano nelle periferie o, come a Roma appunto, in prossimità delle massicciate ferroviarie, formando agglomerati sociali nei quali regnava una sorta di anarchia, spesso anche di rassegnazione, moderata da una flebile volontà di riscatto da condizioni di miseria e di emarginazione.

Volontà di riscatto che spesso si traduceva anche in una vita disordinata, spesso rischiosa, nella quale la necessità di provvedere a bisogni primari conduceva in taluni casi anche a commettere reati, a essere violenti, a esercitare prepotenze.

Quelle stesse caratteristiche si riscontravano nelle borgate romane: Primavalle, Tiburtino, Pietralata…, una periferia popolata da diseredati. Un gran numero di abitanti aveva subito una sorta di "deportazione"; proveniva dall'antico centro popolare di Roma, demolito negli anni Trenta dagli architetti fascisti per la far posto alla Roma trionfale. Confinare, isolare in mezzo alla campagna quel sottoproletariato aveva avuto anche il significato di togliersi di torno gli "indesiderabili".

Ed è proprio con il sottoproletariato delle borgate romane che Pasolini stabilisce un contatto privilegiato:

"Non c'è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino; e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la 'borgata' romana".
Egli è affascinato dall'apparente spregiudicatezza dei giovani che hanno appreso a menadito "l'arte di arrangiarsi". È coinvolto nei problemi di tutta quella gente che non ha coscienza del proprio futuro. È travolto dalla potenza espressiva del linguaggio, meglio, del gergo che utilizzano anche i ragazzini: essenziale, duro, aggressivo, spesso volgare.

Pasolini a volte trascrive i dialoghi dei ragazzi, o li registra mentalmente:

"Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Tor Pignattara, alla borgata Alessandrina, Torre Maura o Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, lessici gergali presi di prima mano dalla bocca dei parlanti, fatti parlare apposta".
Tutto ciò è dunque per Pasolini fonte di nuove esperienze, di una presa di coscienza forte e profonda, che gli fornisce una consapevolezza ancor più viva e radicale dei problemi di ordine umano e sociale che gran parte del popolo del suo paese è costretto ad affrontare, spesso senza alcuna prospettiva.

Dopo avere "sbarcato il lunario" scrivendo qualche articolo o correggendo bozze, al termine dell'anno successivo finalmente Pasolini ottiene un impiego nella scuola media parificata di Ciampino: significa un basso stipendio, riscosso soltanto nei mesi lavorativi, ma è pur sempre un avvio, che gli assicura una condizione più dignitosa. Deve compiere un lungo viaggio per raggiungere Ciampino: due autobus, poi il treno:

"… io felice, disperato, ogni mattina affrontavo il lungo viaggio, che si concludeva a pomeriggio avanzato. Ma pensavo, la mia consolazione era pensare. Pensare era la mia ricchezza e il mio privilegio. Più della metà dei miei versi sono stati pensati, o scritti, in treno".
Nel 1952 Pasolini cura con Mario Dell’Arco un’antologia dal titolo Poesia dialettale del Novecento. Si tratta per Pasolini di confrontarsi con eruditi e filologi che a partire dall'Ottocento avevano censito e vagliato il patrimonio della poesia dialettale italiana.

Per quel lavoro, Pasolini ha come recensore, oltre a Eugenio Montale che gli dedicherà un pezzo memorabile, Franco Fortini, che così interviene in merito a tale lavoro su "Comunità":

"Il saggio di Pasolini-Dell’Arco contiene, in filigrana, la tesi che nella poesia dialettale di questo mezzo secolo si debba vedere, in partenza, il conflitto fra il "populismo" piccolo-borghese, romantico-veristico e l’ansia internazionale, cosmopolitica, della cultura in lingua, quella che Gramsci chiama la vocazione cosmopolitica degli intellettuali italiani con la loro "disorganicità" apparente (cui corrisponde una inconscia, e quindi deleteria, inserzione organica al servizio delle ideologie della classe dominante); e, in arrivo, un vero e proprio "genere letterario", quale può nascere non già dal rifiuto ma dall’accettazione della cultura internazionale.
[…]
"Non conosco, insomma, un libro di poesia che come questo avvii la possibilità d’una storia reale e nuova della nostra generazione. Se è possibile - con l’improntitudine delle quattro parole - accennare ai termini nei quali il discorso sui dialettali potrebb’esser ripreso, Gramsci e Pavese potrebbero darci consigli utili. Il primo, mostrandoci - come in parte ha inteso il Pasolini - a quali complessi ideologici e sociali riferire la polemica dei dialettali, quale sia il loro 'regresso' e quale il loro 'progresso'; e come la debolezza della nostra borghesia nazionale, l’incapacità a prender coscienza di sé e a far fronte al mondo moderno, abbia favorito, forse in Italia più che altrove, la scissione e la contraddizione fra la letteratura d’avanguardia e la letteratura e cultura regionali; questa, impedita ad un certo punto dal risolversi in lingua, quella tagliata fuori dalle radici sociali e diventata letteratura di déracinés (sradicati)".
Qualche mese dopo esce il volumetto di poesie in friulano Tal còur di un frut (Nel cuore di un fanciullo). Gianfranco Contini è tra i suoi primi lettori e scrive a Pasolini:
"Volevo dirle, ma degnamente, ma coi giusti considerandi, che Tal còur di un frut mi è parso l'oggetto, proprio la materia poetica (come si dice materia pittorica) più pura, inventata, vitale e consolante che da lunghi anni (lunghissimi anni) entrasse nella mia sfera di percezione".
È indubbio che dalle esperienze di quei primi anni romani Pasolini ha tratto la maggiore ispirazione per le sue opere di quegli anni, dal romanzo Ragazzi di vita, pubblicato nel 1955, a Una vita violenta, del 1959, a molti dei suoi film, tra cui i primi, Accattone e Mamma Roma.

C'è in questi lavori la scoperta di un ambiente popolaresco più variegato di quello di Casarsa, l'ambiente della borgata appunto. In particolare, il mondo dei sottoproletari, degli spostati e dei piccoli delinquenti, romani o di recente immigrazione dal Sud Italia, è un mondo che Pasolini descriverà molto bene, con dovizia di particolari, e utilizzando il dialetto romanesco delle borgate. Questa volta il dialetto non è più un tramite verso origini che a Pasolini sono estranee, ma verso una naturalità terragna, faziosa, esibizionista, da esasperare semmai in modo espressionistico.

Mentre l'esigenza espressiva di Pasolini si manifesta con sempre maggiore frequenza anche attraverso le sue prime opere cinematografiche nelle quali è sempre presente anche il suo impegno civile, il puntiglioso, appassionato studioso di letteratura e di linguistica si rivela più che mai vitale.

L'editore Garzanti pubblica, subito dopo Ragazzi di vita, due volumi di Pasolini che dimostrano appunto la profondità dei suoi studi e costituiscono una delle ricerche più impegnative affrontate dal poeta. Si tratta di Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare.

Pasolini raccoglie in questa monumentale antologia le espressioni più belle e curiose di una poesia popolare ricca e varia come quella delle regioni italiane, con il suo patrimonio dialettale in primo piano.

Di regione in regione, attraverso quasi ottocento testi di vario genere e struttura, la raccolta passa dai canti narrativi piemontesi alle biojghe romagnole, dalle vilote venete e friulane ai rispetti toscani, dalle canzune abruzzesi ai canti funebri calabresi, dai mutos sardi agli stornelli, agli strambotti, alle ninne nanne, fino ai canti popolari delle due guerre e alle canzoni fasciste e partigiane.

Il Canzoniere italiano rappresenta - grazie anche all'ampia introduzione storico-critica dello stesso Pasolini - una tappa fondamentale della poesia dialettale popolare: ritratto vivissimo poetico e critico degli italiani e delle loro radici regionali. Di tutte le poesie presentate nel dialetto/lingua regionale Pasolini offre anche una sua "traduzione" italiana.

Ho fatto cenno all'introduzione scritta da Pasolini: si tratta di un vero e proprio saggio storico, scientifico e critico, contenuto nelle 143 pagine iniziali del primo volume. Pasolini vi delinea gli aspetti linguistici e cita tutti gli studi e gli approfondimenti compiuti sul tema della poesia popolare italiana, regione per regione, a partire dal Settecento. In particolare, descrive poi la genesi dei canti della prima guerra mondiale, nei quali i dialetti tuttavia furono quasi del tutto abbandonati. Tali canti furono numerosi, favoriti probabilmente dalla immobilità caratteristica della "guerra di trincea".

"L'allure militaresca", scrive tra l'altro Pasolini, "che si è qui abbozzata, passerà poi nei canti fascisti: tutti semicolti, addirittura dannunziani. Né altra poteva essere la produzione di un movimento non popolare, politicamente e socialmente.

"Con somma ripugnanza, per imparzialità (e che valore avrebbe l'imparzialità se non costasse fatica?) abbiamo qui inserito qualche canto fascista preso da una bieca raccoltina stampata anonimamente a Caltanissetta nel '22: il lettore vi vedrà da sé le caratteristiche di stile, la non popolarità, o la popolarità fittizia, nella specie di un volgare virilismo, che sono da attribuirsi generalmente a qualche futuro federale di provincia..."

Ma anche per i canti partigiani Pasolini parla di semi-popolarità e individua, per spiegarla, due fatti:
"[...] primo, l'appartenenza dei dirigenti politici e militari alle file dell'antifascismo borghese [...]; secondo, la coincidenza della lotta militare con la lotta politica, dell'ideale di patria con l'ideale di classe."
Pasolini conclude infine dichiarando:
"Non sussiste dubbio, comunque, che, salvo le aree depresse, la tendenza del canto popolare nella nazione è a scomparire. Né poteva essere altrimenti se la cultura popolare tradizionale ha dato dei canti implicanti necessariamente la soggezione inattiva alla classe dominante: una sua inattiva aspirazione ai privilegi della classe dominante (lingua speciale compresa), e la sua ascesa a questa attraverso le vie irrazionali del sentimento e delle istituzioni stilistiche. Il popolo moderno, invece, cosciente di sé in quanto classe, e politicamente organizzato verso la conquista del potere, tende ad abolire l'irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto: tende ad essere autonomo, autosufficiente nell'ambito ideologico: a dissimilarsi.

"Ma su quale base, se la sua cultura tradizionale - astorica o almeno arcaica e immobile - non lo caratterizza più, non lo contiene se non in qualche parte del Meridione o in qualche povera zona montana? Su una base puramente politica, di partito? Poiché non bisogna dimenticare che le armi di diffusione dell'ideologia della classe al potere, come abbiamo ricordato, sono immensamente potenziate: e la loro influenza, nel popolo, è di condurlo a prendere l'abito mentale e ideologico di quella classe: ad assimilarlo.

"Dissimilazione, dunque, e insieme assimilazione, tra le due culture: con una frequenza intensissima, insieme di simpatia e di lotta, del "rapporto". La poesia popolare, come istituzione stilistica a sé, è in crisi. La storia è in atto."

Dunque, i canti popolari sono scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire. Ciò che contraddistingue il canto popolare, nell'ambito di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l'origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale.

Un'ultima notazione vale la pena fare sull'uso dei dialetti nei film di Pasolini, opere definite da molti commentatori, ma anche dallo stesso autore, "cinema di poesia".

Recentemente sono stati pubblicati due volumi nei "Meridiani" Mondadori in cui sono raccolte tutte le sceneggiature. I testi si presentano come un'opera letteraria ampia e articolata.

Leggendo quest'opera singolare, si scopre un tipo di scrittura pasoliniana che si può definire "visiva", che mostra quali siano le valenze che Pasolini ha inteso assegnare ai linguaggi che di volta in volta utilizza.

Proprio sui linguaggi, precisa Vincenzo Cerami in un suo commento introduttivo all'edizione delle sceneggiature pasoliniane:

"I personaggi borghesi di Pasolini, che pure non sono pochi nella sua opera, acquistano carattere emblematico e paradigmatico, proprio come i film che li vedono protagonisti.

"La lingua con la quale parlano è sempre, lessicalmente e stilisticamente, la stessa, cambia solo il tono a seconda delle circostanze, e mai racconta lapsus, stati d'animo e moti interiori. I borghesi si esprimono con il linguaggio ipocrita della borghesia e non con l'autenticità e le caratteristiche di un individuo dalla personalità unica e irripetibile.

"È come se non avessero verità, la loro voce è del potere che di volta in volta cerca la sua strategia allo scopo di perpetuarsi.
[…]
Al contrario, i personaggi non borghesi parlano e vengono descritti con una lingua che arriva al gergo, al dialetto, e spesso addirittura all'extratestualità dei modi di dire, cronachistici, effimeri, che vivono una sola stagione".

Questo breve resoconto sulla poesia dialettale di Pier Paolo Pasolini ha il suo momento conclusivo in con alcune osservazioni di Gianfranco Contini, mutuate dall'edizione del 1974 della Letteratura italiana edita da Sansoni-Accademia.
"La poesia dialettale di Pasolini non ha nulla in comune con quella più o meno del verismo regionale ottocentesco (di qui la sua polemica con i seguaci della tradizione provinciale): la sua cultura è nettamente simbolistica, ed egli può tradurre in friulano da Rimbaud o da T.S. Elliot […], ed esperire squisite variazioni in vernacoli di singole località, sempre sullo sfondo di un dialetto non identico al friulano 'ufficiale'.

"Aggiungendosi al fatto che il friulano partecipa piuttosto allo statuto scientifico d'una lingua minore che d'un dialetto, ciò indica che il dialetto di Pasolini ha già in quanto materia il fascino dell'inedito, configurando quell'ideale di lingua vergine che per esempio nel 1889 animava nel tedesco Stefan George (1868-1933) gli esperimenti poetici in una 'lingua romana' di sua invenzione, e poco dopo nel nostro Pascoli i concetti d'una: 'Lingua che più non si sa' e d'una 'Lingua morta' da recuperare [...].
"L'indugio sul Pasolini friulano serve a dar ragione del Pasolini romanesco: una parlata elementare e ridotta come quella dei suoi giovani teppisti (che nel dialogo dei due romanzi [Ragazzi di vita e Una vita violenta] adoperano esclusivamente il loro gergo) è una forma inedita conveniente a un nuovo esperimento.

"Questo sperimentalismo costituisce la motivazione principale di Pasolini e ha trovato un incentivo nella nozione di 'plurilinguismo' elaborata da certa critica stilistica ed espressamente citata da Pasolini nei suoi saggi, tutti pragmatici, riflesso cioè di due attive preoccupazioni: l'esempio più illustre di plurilinguismo che Pasolini trovava nell'Italia contemporanea era quello di Carlo Emilio Gadda, il cui libro più celebre è tematicamente, e nella base della sua deformazione linguistica, romano. Ma di quanto il linguaggio di Gadda è fantasticamente esuberante, di tanto quello di questo Pasolini è secco e 'basico'".

* * *
BIBLIOGRAFIA

Vol. I Poesie a Casarsa 1941-1943
I. Poesie a Casarsa 
I. Casarsa 
II. Alelujia 
III. La domenica uliva 

II. Suite furlana 1944-1949 
I. Linguaggio dei fanciulli di sera 
II. Danze 
III. Lieder 

Appendice 1950-1953 

Vol. II  Romancero 1947-1953

I. Il testament Coràn 1947-1952 

II. Romancero 1953 
I. I Colus 
II. Il Vecchio Testamento 

Nota 

La nuova gioventù
Seconda forma de “La meglio gioventù” (1974) 

La meglio gioventù 1941-1953

Seconda forma de 
“La meglio gioventù” 1974 

1. - Poesie a Casarsa
I. Casarsa 
II. Alelujia 
III. La domenica uliva 

2. - Suite furlana 1944-1949
I. Linguaggio dei fanciulli di sera 
II. Danze 

Tetro entusiasmo 1973-1974
(Poesie italo-friulane) 

Nota 1974 

Poesie a Casarsa 1942
(A mio padre) 
I. Poesie a Casarsa 
II. La domenica uliva 

Dov’è la mia patria 1949
Edizioni dell’Academiuta de Lenga Furlana, Casarsa 
con 13 disegni di Giuseppe Zigaina 

Tal còur di un frut
(Nel cuore di un fanciullo) 
I. Ciasarsa 
II. Tal còur di un frut 
III. Suite furlana 
IV. Chan plor 

Poesie dimenticate
La Julia 1943 
A Versuta 1943-1945 
Lieder 1949 
Il Gloria 1950-1953 

Poesie disperse I (solo in parte in friulano) 

Poesie disperse II (solo in parte in friulano) 

Poesie inedite
Da Poesie furlane 1946-1947
Ciasarsa

Canzoniere italiano
Antologia della poesia popolare
[2 voll., a cura di Pier Paolo Pasolini]
Prima edizione, Garzanti 1955



 
 
 

POESIA
VEDI ANCHE

Le poesie friulane

L'usignolo della chiesa cattolica

Las religione del mio tempo

Poesia in forma di rosa

Trasumanar  e organizzar

Bestemmia. di F. De Melis
e G. D'Elia

Bestemmia, di A. Molteni

La poesia dialettale di Pasolini, di G. Contini

Poeta delle Ceneri, di Pier Paolo Pasolini

"Ballata delle madri" da Poesia in forma di rosa, di Pier Paolo Pasolini

L'importante collaborazione
a "Officina"

Bibliografia

 

 


La poesia - Pasolini e la poesia dialettale

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