Pier Paolo Pasolini
La poesia
Bestemmia
Raccolta di tutta la produzione poetica
pasoliniana edita, più inediti e testi dispersi
Due interessanti contributi critici
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Deliri piccolo-borghesi e volontà
dantesca in fusione nell'opera
di Federico De Melis
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Sorprende dalle riconsiderazioni che si son fatte della lirica pasoliniana in occasione dell'uscita di Bestemmia, l'esigenza di circoscrivere, definire, il concetto di poesia. Che cos'è la poesia? è la domanda sottesa o esplicita negli articoli di Giovanni Raboni, Franco Loi e chi altri. Fissati i paletti, si può procedere ad indicare se e quanto possa considerarsi poeta Pasolini. V'è, in questa urgenza, la nostalgia di uno statuto, che infatti l'opera poetica di Pasolini, al contrario degli esercizi "stilistici" della neo-avanguardia, mette in crisi alla radice.
Non è un caso, credo, che quasi tutte le recensioni a Bestemmia abbiano glissato sulla prefazione di Giovanni Giudici: infatti nella sua asciuttezza essa individua punti-chiave della poesia pasoliniana, tutti implicati nel problema epocale della dissipazione. Poco importa, da questo punto di vista, che si consideri più o meno "riuscita" l'infrazione pasoliniana: è un ordine del ragionamento che fa parte di quel modo statutario e formulare, cioè consolatorio, di intendere la poesia, che Pasolini si sentì appunto costretto a distruggere.
Da questo ordine si può discettare sul concetto di "classico", su cui sempre Pasolini, col suo operare poetico, ha detto una parola definitiva. Egli avrebbe disdegnato l'idea di diventare "classico", non per paura della mummificazione, ma perché si sarebbe sentito totalmente incompreso nella sua "modernità": vale a dire nell'idea, mostrata esistenzialmente quando non propugnata, secondo cui la storia aveva passato l'ultimo cerchio di fuoco, oltre il quale doveva considerarsi bruciata ogni riserva di memoria. In questo Dopostoria nessuna "classicità" si sarebbe potuta ristabilire, se non in forma parodistica. Dall'immersione nuova nella poesia pasoliniana di cui si fa esperienza leggendo Bestemmia, che per la cura seria e amorevole di Graziella Chiarcossi e Walter Siti la raccoglie integralemente (per la parte edita) e in molti campioni significativi (per quella inedita), s'esce con un senso rigenerante e insieme amarissimo del tempo: questo per negazione, perché di continuo, dall'inizio alla fine, protagonista è l'ossessione della circolarità stagionale, del tempo che ritorna e dunque non si dà come conquista illuminista e progressista.
La poesia più alta è quella in cui questo sentimento si traduce più direttamente in immagini, e queste immagini contendono la pagina a quel "ricordo mormorato" che è la storia. Qui il grande manierista di Poesia in forma di rosa, di "Israele" o de "L'alba meridionale", avvinto infatti in questa sua stagione (1961-1964) dalla lascivia e dal rovello figuartivi di Pontormo e del Rosso. L'infrazione linguistica a cui Pasolini si sente obbligato dal riconoscimento di un impossibile "ritorno all'ordine" lo affaccia sul vuoto metrico, e dalla tensione che ne deriva non può che sortire esplosione immaginaria.
In questo ribollire atomico affiorano a tratti, come brandelli umani, i ricordi: che sono le tracce, o meglio, le citazioni di una storia sognata, mitizzata, da cui non poca luce s'è riflessa, come in un processo divinatorio, sulla storia reale. Ricordi dell'elegia friulana o appeninica, proiettata sulla Roma delle borgate, sono sommersi dal mare delle nuove laide urgenze. Se tutto appare ancora integro, come Argo dinnanzi a Pilade, che vuole liberarla dal passato con la ragione democratica e progressiva, tutto è in realtà corrotto: col suo occhio "di pesce", magico, simile a quello della sua Medea, Pasolini penetra nella corruzione, attraverso le porte finte della storia.
E' in Poesia in forma di rosa che per la prima volta con chiarezza si delinea il motivo di Petrolio: l'idea di una fuoriuscita dalla letteratura verso un'esistenza corporea e palpitante, priva dell'esperienza temporale, riflesso di un turbamento antropologico senza precedenti che è pur sempre un libro. Sarà un "delirio" enciclopedico, come l'ha definito acutamente Fortini a sottoporre la storia al "giudizio finale", da cui non ci si può aspettare tuttavia, remissione alcuna. E di volontà enciclopedica scrive giusto Giudici a proposito dell'opera poetica di Pasolini laddove la si intenda, come si deve, quale intero.
Ma se il "delirio" di Fortini è "piccolo-borghese", la volontà di Giudici è "dantesca": però questa è una distinzione che nell'oltranza pasoliniana non si comprende.
Da "il manifesto" del 10/2/1994 per gentile concessione
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.Pasolini, un corpo chiamato linguaggio
di Gianni D'Elia
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Pasolini poeta continua ad essere oggetto di contrasti. Ora con Bestemmia, Tutte le poesie, e cioè con la raccolta di tutta la produzione poetica pasoliniana edita, più inediti e testi dispersi in riviste e altrove, i contrasti si riaccendono. Troppo contemporaneo per essere classico. Troppo vicino a noi per poter sopravvivere come poeta dopo di noi. O addirittura mediocre poeta, migliore regista e prosatore (ma saggista non romanziere), miglior critico che autore. Sarà proprio così?
Giovanni Giudici, nella bella prefazione ai due volumi recenti, ci parla di un vero e poliedrico poeta, attirato dall'"inespresso esistente", e cioè dal segreto mai rivelabile della realtà, dal suo mistero. Perchè di Pasolini si può anche dire che è stato un grande poeta del secondo novecento, dell'aver vissuto la lacerazione della poesia, sentita come carente alla vita. La poesia è, per Pasolini, il discorso del corpo vivo. Il discorso, e non il corpo ("E' parola, non Carne...", da un inedito del 1949). E' in questa espulsione del corpo dalla scrittura che vive la parola poetica. E' nella coscienza di questa espulsione che si riproduce la contraddizione insanabile del verso (che significa proprio spezzato, piegato). Dunque è altro che ci interessa, rileggendo la (a volte grandissima, altre meno) poesia di Pasolini, come del resto la poesia di Montale, Caproni.
Forse, chiusi nel mito del formalismo della critica letteraria, non possiamo capire l'apporto vero di un poeta alla sua cultura, alla lingua in cui si è insediato. Con Pasolini, come del resto in Francia con Artaud, dobbiamo usare un'altra chiave. Sono casi che hanno messo alla prova la lingua e l'unità del soggetto, e con essi la menzogna letteraria.
Vivendo con il corpo la cultura, certi autori del Novecento hanno dato la vera avanguardia del cuore, mentre la critiva correva dietro a quelle ufficiali. Le fonti seccate hanno ricevuto nuova acqua dalla violenza espressionistica e dal manierismo vitalistico. Per Artaud, Genet, Pasolini, la "poesia" ha significato il discorso del corpo vivo. La polemica è stata contro uno statuto del sapere, che si organizza e si sviluppa invece come discorso sul corpo morto, come discorso del corpo morto.
Poche opere come quella di Pasolini, in questo secolo, portano dentro di sé l'istanza della ragione vitale, l'evento ossesso del corpo. Di questo fa esperienza il linguaggio pasoliniano. Attraverso i gradi della nostalgia delle origini (il friulano romanzo dell'apprendimento), della emulazione metrica (le raccolte italiane "incivili", più che civili, poiché sempre in dissidio o mai mediatorie), degli ultimi abbassamenti alla prosa, Pasolini corre tutti i rischi, ma li supera per evidenziarne sempre meglio il suo fuoco. Non si tratta, come alcuni critici sostengono, di fallimento formale, ma di una strategia consapevole di dissipazione. Perché si dovrebbe scrivere, se non per piacere o per necessità, perché non se ne può fare a meno? Non c'è altro giudizio che quello di sentire veri certi percorsi, e percorrerli fino in fondo.
Di che cosa è stato poeta Pasolini? Del corpo vivo che non si sa rassegnare all'estrema unzione di tutte le istituzioni, fino alle culturali e linguistiche, perché c'è qualcosa che fonda e precede la stessa cultura: il rapporto prelinguistico e mistico con le cose. "Gettare il proprio corpo nella lotta" sta allora per "gettare il proprio corpo nel linguaggio". E' questo il vero scandalo, la pietra di eresia che fa uscire dalla rilettura dell'opera di Pasolini, al di là della stucchevole rappresentazione di "poesia civile" che gran parte della critica le ha assegnato con un convincimento opposto: si tratta della poesia meno "civile" che sia data nel Novecento, perché meno compromessa con qualsiasi mediazione mondana.
La contraddizione corpo/storia è insanabile, come come uno stile da allucinazione del reale ("la realtà - l'irreale qualcosa", dai Quadri friulani, altro che "realismo sociale"!). Si tratta di una poesia violentemente inclusiva dell'altro, che si sa per sempre cancellato, nell'atto stesso che lo si nomina: il corpo vivo.
Ed è proprio il discorso del corpo vivo (che si sa in perenne scissione con l'essere del corpo) ad essere nella poesia di Pasolini continuamente evocato. Nella cultura, il rapporto tra segno e cosa prende l'aspetto del rapporto tra segno e segno: quest'ultimo esclude dal proprio sistema il corpo, la vita, la fisica tridimensionalità con cui lavora il cinema, tridimensionalità che lo stesso cinema, diventando scrittura, riduce. E' l'ossessione della "semiologia della realtà" e non della semiologia del cinema: la realtà è il linguaggio (il figlio è la madre?), è il linguaggio più grande, "la mia vera passione".
Pasolini vive così aperto dentro la contraddizione corpo/storia, fino a quando questa non lo sopprime e se lo porta via, lasciandoci un'opera ancora molto da capire e saggiare, grazie anche a questa ottima edizione ormai indispensabile nel suo corpus poetico.
Da "il manifesto" del 10/2/1994 per gentile concessione
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POESIA
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Bibliografia
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