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Saggistica Quel Pasolini da dimenticare di Pierluigi Battista, "Corriere della Sera" 27 luglio 2009 Periodicamente si riaffaccia il celebre verdetto di Pier Paolo Pasolini: «Io so, ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale... che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico». Lodato come luminoso esempio di coraggio civile e di temerarietà culturale, la famosa invettiva dell' «Io so, ma non ho le prove», ancorché concepita nel periodo più buio dello stragismo italiano, è l' espressione del peggior Pasolini, l' esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano: lo schematismo dottrinario e ideologico («che mette insieme i pezzi in un quadro coerente»). La noncuranza per i fatti. Il disinteresse politico e, ciò che è peggio, giuridico per le «prove». La realtà deformata come narrazione di parte. La ferocia giustizialista. Il manicheismo morale. La debordante sopravvalutazione di sé, del proprio ruolo, della propria abnorme missione profetica. Formulando quella sentenza, l' anticonformista, eretico Pasolini si piegava ai dettami del conformismo più corrivo. Si rivolgeva al suo mondo per regalare certezze, anziché dubbi, bersagli chiari e non ripiegamenti rassegnati. Nella stagione delle stragi e dei misteri, il proclama pasoliniano, prigioniero di una verità preconfezionata, incitava alla semplificazione estrema: «Io so». La ricerca empirica delle prove, e persino degli indizi, diventava esercizio ingombrante, fatica superflua. Il suo esito non avrebbe aggiunto nulla alla coerenza di un discorso fondato sui teoremi e non su un percorso investigativo che, al massimo, avrebbe dato una certificazione poliziesca e giudiziaria a verità già possedute in forme compiute dal sommo sacerdote della nostra epoca destinato a custodire una fede senza prove: dall' Intellettuale che sa, e rende coerente ciò che è frammentario. Senza la ricerca delle prove, il giudizio degrada a pregiudizio, la coerenza è solo astratta, dogmatica, sillogistica, irreale, retorica. Cosa sapeva Pasolini? Niente. Ma anche tutto, dal punto di vista della religione di cui era guardiano. La certezza di incarnare l' Italia migliore. La certezza che tutto ciò che esorbitasse dai confini del mondo «buono» e «giusto» fosse contaminato da una ripugnante sindrome delinquenzial-criminale. La fede, da onorare nei tribunali della coscienza e non in quelli dello Stato dove si amministra la giustizia. Come Saint-Just che chiedeva la condanna capitale di Luigi XVI non perché fosse colpevole di una singola e «provata» azione criminosa ma per il crimine supremo e inappellabile di essere Re, così Pasolini tuonava contro il Nemico da schiacciare come un mostro. Il peggior Pasolini. Che va dimenticato, per la disperazione dei suoi troppi epigoni, pessimi allievi di un cattivo maestro. ![]() di Francesco “Baro” Barilli, 3 agosto 2009 http://www.aldogiannuli.it/ Il 27 luglio, sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista ha invitato i suoi lettori a dimenticare il Pasolini di “Io so”. Lo conforto: gli italiani non hanno bisogno di simili inviti, già da soli sono bravi a dimenticare i propri intellettuali. Al massimo ne salvano qualche citazione, buona per fare bella figura in un salotto, e tanto basta. L’invettiva di Pasolini di fronte alle stragi di quegli anni (ne sarebbero seguite altre dopo l’articolo del poeta e dopo la sua morte) costituirebbe secondo Battista “l’espressione del peggiore Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano”. Ma soprattutto, sempre secondo la stessa fonte, nelle parole di Pasolini “la ricerca empirica delle prove, e persino degli indizi, diventava esercizio ingombrante, fatica superflua”. Con queste due citazioni penso d’aver centrato il cuore del commento di Battista e pure il suo principale errore: credere che la ricerca della verità dell’intellettuale debba coincidere (come percorso logico) con quella della Magistratura. Oppure ritenere che le uniche verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia possano arrivare secondo dinamiche esclusivamente “pratiche” (fatto criminoso, raccolta di elementi e possibili moventi, colpevoli ipotizzati e infine accertati).Peraltro, recentemente abbiamo visto che pure sentenze passate in giudicato non bastano a mettere il sigillo su una verità accertata, se esiste la volontà politica di riscrivere quella data pagina: su Liberazione del 2 agosto Saverio Ferrari, a proposito della strage di Bologna, ha puntualmente descritto i tentativi di ridiscutere l’accertata matrice fascista di quell’attentato. Il punto è che le sentenze possono essere condivisibili e apparire sensate oppure l’esatto opposto: è tratto distintivo della giustizia umana differenziarsi da quella divina (per chi crede in quest’ultima) non solo per l’assenza della maiuscola o per il suo intrinseco margine di fallibilità. Quel che distingue la giustizia umana è l’assenza di prerogative assolute o taumaturgiche, che invece la società e la politica continuano ad assegnarle, un po’ per semplificazione, molto per affossare la ricerca di altri livelli di responsabilità (del resto Pasolini proprio nel suo “Io so” diceva che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”). Credo che Battista non abbia colto il senso delle parole di Pasolini. No, lui non sapeva i nomi di chi mise una bomba nella banca di Piazza Fontana, sotto il portico di Piazza della Loggia, o ne avrebbe messa un’altra, anni dopo, alla stazione di Bologna. Ma conosceva le logiche del potere, che risponde alla sola legge dell’autoperpetuazione ad ogni costo. Capiva le finalità politiche (neppure univoche) cui dovevano rispondere le stragi, e lo capiva con i soli mezzi con cui è possibile operare un’analisi di questo tipo: quelli dell’intellettuale, che non pretende di supplire con le proprie riflessioni all’azione della Magistratura. A questa spetta un altro compito, altrettanto importante: l’individuazione di responsabilità penali e personali. I due livelli di ricerca non sono sovrapponibili, ma se svolti egregiamente si completano senza contraddirsi. E penso si possa affermare che quanto emerso, seppure con persistenti margini di ambiguità, su Piazza Fontana e le altre stragi (nell’ambito processuale, nelle ricerche degli storici, nella defunta commissione stragi ecc), abbiano dato ragione a Pasolini. Un’ultima riflessione. Pensavo che l’articolo di Battista sollevasse un dibattito ampio. Così non è stato: fatta eccezione per qualche risposta apparsa su alcuni blog, i media hanno ignorato la questione. Gli italiani, bravi a dimenticare Pasolini, lo sono altrettanto nel dimenticare Battista. Non tutte le conseguenze della sciatteria di un popolo sono negative. ![]() di Vittorio Sgarbi, "Il giornale" 5 agosto 2009 In un interessante articolo sul Corriere di qualche giorno fa, Pierluigi Battista propone una tesi impervia sul pensiero di Pasolini. Proprio quello che più ha affascinato e che configura tutti i mali generati dal «palazzo». Con un certo coraggio Battista sovverte quella che sembrò la più coraggiosa e profetica verità dell’ultimo Pasolini: «Periodicamente si riaffaccia il celebre verdetto di Pier Paolo Pasolini: “Io so, ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale... che mette insieme i pezzi disorganizzati, e frammentari di un intero, coerente quadro politico”. L’ho dato come luminoso esempio di coraggio civile e di temerarietà culturale, la famosa invettiva del “io so, ma non ho le prove”... un’espressione del peggior Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano: lo schematismo dottrinario e ideologico... La noncuranza per i fatti. Il disinteresse politico e, ciò che è peggio, giuridico per le prove... Il peggior Pasolini. Che va dimenticato, per la disperazione dei suoi troppi epigoni, pessimi allievi di un cattivo maestro». E in effetti da questo pregiudizio pasoliniano deriva, per esempio, la parte peggiore di Tangentopoli e il grottesco processo ad Andreotti. Ancora io ne sono parzialmente vittima con la persecuzione di provocatori che, a ogni mio intervento politico o sulla mafia, mi rimproverano le critiche a Caselli, per riversare i nostri scontri su YouTube, intimandomi di dimettermi da assessore di Milano o da sindaco di Salemi, funzioni che, come molti sanno, io ho affrontato con grande impegno. Ma la ricerca del nemico simbolo è il retaggio di questa falsa esaltazione dell’onestà nella convinzione di essere gli unici buoni e giusti che muove lo squadrismo paragiudiziario dei Di Pietro, dei Travaglio, dei Grillo, questi sì pessimi allievi di Pasolini. Ma non li trovi mai nelle battaglie vere, essi sono particolarmente attratti dal pettegolezzo delle Procure alimentato da magistrati desiderosi di clamore come i Woodcock e i De Magistris, eroi di non si sa quale battaglia se i nemici sono Vittorio Emanuele di Savoia o Clemente Mastella, Fabrizio Corona o la signora Mastella, e magari Lele Mora e Flavia Vento. Certo Pasolini non poteva pensare di alimentare epigoni così ridicoli e patetici. Eppure, il sussiego ce l’hanno tutto, il loro capostipite, Giancarlo Caselli, processando Andreotti ha inteso, finalmente!, processare il palazzo. Il fatto è che Pasolini, contrariamente a quello che pensa Battista, aveva ragione. E non si capisce perché credeva di non avere le prove. Io le prove le ho. Non so se i colpevoli hanno responsabilità penali individuali, ma so che ce le hanno politiche e culturali. Così, chi arriva a Roma si chiede come sia stato possibile, dopo l’esaltazione dell’Eur (E42), aver distrutto la teca dell’Ara Pacis di Vittorio Ballio Morpurgo del 1938, alterando piazza Augusto Imperatore con un incredibile manufatto fuori scala, che è stato ostinatamente voluto, contro ogni regola e ogni legge (in particolare quella che tutela il patrimonio artistico e architettonico del 1° giugno del 1939, la 1089) da responsabili che hanno nome e cognome: Rutelli, Veltroni, Urbani più sovrintendenti e funzionari, la cui ignoranza, e talvolta malafede, hanno consentito la distruzione di una parte di storia e la costruzione di un orrore. Qualche giorno fa su questo giornale abbiamo denunciato il tentativo autorizzato di abbattere la villa Liberty in perfette condizioni a Morazzone, vicino a Varese. Episodi come questi, negli ultimi cinquant’anni, hanno caratterizzato amministrazioni comunali e regionali con la complicità o l’indifferenza delle autorità statali, così che l’Italia già ai tempi di Pasolini, e lo si vede nei suoi film, ha perduto almeno il 50 per cento dell’edilizia rurale minore, caratterizzata con una cementificazione così violenta da avere sfigurato anche ciò che resta dell’Italia monumentale, basti pensare al ferro di cavallo a Perugia, al fondale della valle dei Templi ad Agrigento, agli sventramenti di Palermo, alla trasformazione della campagna lombarda, veneta ed emiliana in una serie ininterrotta di capannoni industriali, tutto quello che ci ha rubato Oggi in Puglia, in Molise, in Basilicata, in Sicilia e persino alcuni lembi di Toscana gigantesche pale eoliche e impianti fotovoltaici cancellano la coltivazione delle campagne, distruggono muretti a secco, e godono di autorizzazioni e contributi delle Regioni e della Comunità europea. La strada che va da Palermo a Mozia passando per Castellammare del Golfo, descritta da Brandi come una delle più belle del mondo per varietà di paesaggi tra mare e colline è disseminata di centinaia di pale eoliche di cui la magistratura ha, dopo le mie denunce, ravvisato pesanti interessi mafiosi. A Ragusa terre incontaminate vengono cementificate e desertificate per ricoprirle di pannelli solari. I responsabili di questa inaudita violenza hanno un nome e cognome, e le prove sono davanti agli occhi di tutti. Assessori regionali, responsabili dell’Enel, con campagne promozionali per gli investimenti nella cosiddetta «energia pulita», si dichiarano spavaldamente responsabili. Il presidente della Repubblica, garante della Costituzione dimentica, davanti a questo orrore denunciato da Italia Nostra, dagli Amici della Terra, da Alberto Asor Rosa, di richiamare Inutili gli studi di Pasolini, inutile il richiamo ai dialetti, inutili le ricerche di antropologi, etnologi come Giuseppe Pitré, Ernesto De Martino, Antonino Uccello, tutto inutile: occorre sfigurare non soltanto le città ma anche la campagna e persino il mare con l’eolico off shore. Nulla è rimasto intentato. E quali altre prove ci occorrono? E quali altre responsabilità, dichiarate alla luce del sole dobbiamo ricercare? E la politica, non diversamente dai tempi di Andreotti, si mostra complice. In questi giorni i manifesti per le primarie del Partito democratico a Roma, nei mesi scorsi i manifesti elettorali proprio di Antonio Di Pietro, esaltandosi al richiamo di energie alternative riproducono, in perfetta malafede, come innocui piante le pale eoliche indicate come programma politico. Ciò discende, e Pasolini lo aveva perfettamente previsto, dalla crescente ignoranza e dalla incultura delle classi dirigenti la cui insensibilità, la cui esaltazione per l’ovvio sono molto più gravi della corruzione personale. La magistratura pugliese insegue le protesi di Tarantini acquistate dagli ospedali convenzionati e ignora la devastazione dei parchi eolici nel Foggiano e nel Barese, la mancanza di sensibilità e la condiscendenza ai luoghi comuni caratterizzano una classe dirigente che distrugge la civiltà contadina e le coltivazioni tradizionali nella più assoluta consapevolezza così come lascia in abbandono edifici storici e architetture rurali. Le «magnifiche sorti e progressive» che, anche a Milano con la controversa esaltazione per l’Expo, caratterizzano l’edilizia contemporanea affidata ad archistar senza rispetto e senza memoria. Occorre perdere identità, inebriarsi in un insensato «sviluppo sostenibile». Ne abbiamo avuto un esempio persino nelle immagini, non so se di progetti o di aree realizzate a La Maddalena. Le cooperative del prima e del dopo, nell’esaltazione di una pulizia asettica e ospedaliera, inducono a rimpiangere il prima. Certo Di Pietro e Grillo non ne sono consapevoli e se qualcuno lavora per salvare la memoria loro lo tormentano chiedendogli di dimettersi per poter avere dei bravi amministratori che dicano e pensino tutti le stesse cose senza accorgersi che l’Italia di Pasolini, l’ultima Italia contadina viene loro sottratta in nome di niente, cancellando frasi di monumenti e paesaggi. Ecco le prove, sono tutte davanti a noi. E i responsabili sono rei confessi. Battista si può tranquillizzare. Pasolini aveva visto giusto e oggi potrebbe scrivere: «Io so, e ho le prove». ![]() di Angela Molteni, 18 agosto 2009 Meglio, molto meglio dimenticare Pierluigi Battista, studente (borghese figlio di borghese) negli anni settanta a Roma, oltre che ex di tutto quanto sia immaginabile, dal marxismo-leninismo della pressocché ignota formazione politica "Unità operaia" al pannellismo più sguaiato... C’è un libro di Pasolini, l’incompiuto Petrolio, in cui lo scrittore, dopo quelle che Battista definisce frettolosamente “invettive”, inizia a fare nomi e a formulare indizi; con lo spirito tuttavia del narratore, dell’analista del proprio tempo, piuttosto che con quello caratteristico di un ruolo che non gli era proprio, cioè quello di uomo con una toga gettata sulle spalle. Anche in questo consiste la grandezza e la coerenza di Pasolini, checché ne dica quel buonuomo di Battista. Al quale consiglio la lettura di Petrolio, se non altro come ultima spiaggia per acquisire quel minimo di dignità che potrebbe essere utile al suo giornalismo d'accatto: mi auguro possa ricavarne maggior giovamento di quanto ne trasse per esempio il suo collega Nello Ajello. In Petrolio (come e ancor più che in altre opere di Pasolini) è contenuta la storia dell’Italia delle morti violente, delle stragi, delle concussioni, delle appropriazioni indebite, dei tentativi golpisti; vi sono descritti personaggi e misfatti reali, che Pasolini non esita a smascherare e a denunciare. Purtroppo Pierluigi Battista mostra di conoscere in modo piuttosto approssimativo la storia d’Italia (e ancor meno la statura intellettuale di Pasolini): se così non fosse, d’altronde, non si riuscirebbero a comprendere per esempio i motivi delle reiterate presenze televisive del vicedirettore del “Corriere”, dove tutto ciò che sostiene (si fa per dire) non soltanto è approssimativo, ma è spesso esposto dal giornalista in questione in modo ipocrita, equivoco, fazioso, e anche un po' stupido. Se qualcuno ha mostrato coraggio e capacità di analizzare con attenzione i fatti che si svolgevano intorno a lui, e di trarne, grazie a una mente guidata dall’intelligenza (dote rara), le logiche conseguenze e previsioni, si può perlomeno essere certissimi che non si tratti di Pierluigi Battista: il suo è uno sfoggio di banalità e di stereotipi, un’accozzaglia di luoghi comuni adatti soltanto per riempire una porzione di pagina del “Corrierone”. Per quanto riguarda Vittorio Sgarbi. osservo che non perde l'occasione per esternare sgradevolmente, ancora una volta come un disco rotto, insieme alle proprie contraddizioni anche la sua carenza di onestà intellettuale. Se si limitasse, infatti, a disquisire su ciò che riguarda le sue competenze artistiche o presunte tali (magari senza ricorrere al plagio) potrebbe perfino apparire credibile. Ma quando denuncia il “pregiudizio pasoliniano” per concludere poi che “Pasolini aveva visto giusto” dimostra una coerenza che mi pare faccia acqua da tutte le parti. Ma il peggio di sé Sgarbi lo dà quando cita Tangentopoli e poi Giancarlo Caselli, promotore del processo ad Andreotti dinanzi al Tribunale di Palermo perché rispondesse dei reati previsti dagli articoli 416 e 416 bis del Codice Penale per “avere messo a disposizione dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l’influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e alla espansione dell’associazione medesima […]”. Ebbene, il processo Andreotti si è concluso con la dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, da parte della Corte d’appello, fino alla primavera del 1980: è stato cioè riconosciuto colpevole di “un'autentica, stabile ed amichevole disponibilità [...] verso i mafiosi concretamente ravvisabile fino alla primavera del 1980”, reato tuttavia “estinto per prescrizione” (i virgolettati si riferiscono a passaggi della sentenza di appello del 2 maggio 2003). Ai cittadini italiani hanno fatto credere che fosse stato assolto, ma all’imputato eccellente era chiaro come ciò non fosse affatto vero, ed è questo il motivo del ricorso di Andreotti prima in appello poi in cassazione, a cui ha chiesto l’annullamento della prescrizione e una assoluzione con formula piena. Ma anche la cassazione (15 ottobre 2004) ha confermato la sentenza di appello e lo ha condannato a pagare le spese processuali. Nella motivazione della sentenza di appello confermata dalla cassazione tra l’altro si legge (pagina 211): “Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione”. Il limite della primavera del 1980 è la data dell’ultimo incontro che Andreotti aveva avuto con il mafioso Bontade. Un primo incontro c’era stato prima del delitto Mattarella (avvenuto il 6 gennaio 1980): in tale occasione Bontade preannunciò ad Andreotti il progetto dell’assassinio, ma Andreotti non avvertì Piersanti Mattarella del pericolo incombente e quest’ultimo fu ammazzato. In seguito Andreotti si recò di nuovo in Sicilia a incontrare Bontade per avere spiegazioni su quel delitto e questi gli rispose: “l’avevamo avvertita”. Questo è l’ultimo incontro che i giudici ritengono accertato. Vi sono poi altri incontri successivi con mafiosi, ma non si ritiene che siano sufficienti a stabilire che Andreotti fosse ancora organicamente legato alla mafia dopo il 1980, anche perché poi Bontade venne ucciso dai corleonesi e perché cambiarono tutti gli equilibri interni ed esterni alle associazioni mafiose. Così ora tutti sappiamo (o meglio non sappiamo, visto lo stato più che preoccupante della informazione in Italia) che siamo stati governati da un colluso con la mafia fino al 1980. Così come ora tutti abbiamo ampia conferma della vera e propria malafede di Vittorio Sgarbi. ![]() |
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