I ricordi - Sommario

"Pagine corsare"
I ricordi
 

 "L'Espresso"
del 9 novembre 1975
..

.
La storia e la personalità di Pier Paolo Pasolini raccontate da Valerio Riva, Cristina Mariotti, Alberto Moravia, Umberto Eco, Giovanni Testori, e dal poeta stesso
.

Pasolini - un articolo sull'Espresso


Povero Cristo,
di Valerio Riva

"Coscientemente ho cercato la morte dopo una breve giovinezza, che pure a me pare eterna, essendo l'unica, l'insostituibile che io avessi avuto in sorte. Coscientemente ho rinunciato all'inenarrabile gioia di essere al mondo... ma ho pagato questa rinuncia con uno strazio tale che solo un vivo può comprenderlo". Queste parole, di trent'anni fa, Pier Paolo Pasolini le scrisse, idealmente, a nome di suo fratello Guido, ucciso il 7 febbraio 1945 nel tragico eccidio di Porzùs, nel Friuli. Le ritrova per me Giuseppe Zigaina, il pittore di Cervignano intimo amico di Pasolini: l'altro giorno, frugando tra le pubblicazioni di quella "Academiuta" (a metà tra scuola dominicale e accademia folclorica) che Pasolini aveva fondato a Casarsa, gli sono capitate sott'occhio: una specie di testamento spirituale vergato, oltre la morte, dalla pietà fraterna. Poi è squillato il telefono con l'annuncio della morte dell'amico, e Zigaina è partito per Roma. Adesso si rigira in mano questa paginetta: "Credo", dice assorto Zigaina, "che se potesse, dopo la morte, Pier Paolo riscriverebbe le stesse parole per sé". E mi sottolinea una seconda frase: "Non c'è confronto possibile fra tutto ciò che è di codesta vita e il silenzio terribile della morte..."; e Pasolini è precipitato anche lui nel silenzio terribile della morte, e queste frasi suonano come una straziante, impossibile invocazione alla felicità da parte di uno che era troppo diverso dagli altri. "Ma è mai stato felice, quest'uomo?" chiedo allora a Zigaina e a Nico Naldini, il cugino e l'amico fedelissimo di Pasolini, dall'infanzia ad oggi. Mi rispondono tutti e due, senza esitare: "È stato anche molto felice. Ma poche volte". 
54 anni di vita, la maggior parte dei quali triturati dal rovello di sentirsi respinto e offeso fin nell'attimo in cui la gloria più sembrava arridergli; un'adolescenza spezzata da una tragedia familiare (la morte del fratello, lo strazio della madre, il rancore del padre); una giovinezza difficile; una maturità accidentata dalle polemiche e dai processi, lui che era un uomo così mite e riguardoso. E solo due o tre momenti di grande, totale, solare felicità. 
Il primo di quei momenti è il tempo del Friuli, di Casarsa della Delizia, dove si era trasferito, da Bologna, al seguito del padre ufficiale di carriera e della madre maestra. La campagna e i giochi dei ragazzi lungo gli argini; la montagna e le pazze corse con gli sci; la poesia che nasce. È un mondo perfetto dove l'entusiasmo del ragazzo molto dotato si dilata quasi senza costrizioni, trasformando l'innocenza infantile e la scoperta della sessualità nel mito di una paidìa trionfante. Il 7 febbraio 1945 quel mondo s'incrina, ma non si spezza. La morte del fratello Guido è brutale, in un modo che quasi preconizza la morte di Pier Paolo. Membro di una formazione di partigiani "bianchi" del Friuli, Guido è ucciso nello sterminio del comando della "Osoppo" per opera di garibaldini, cioè comunisti, persuasi (a torto) che gli osovani avessero avuto intelligenza col nemico. La morte di Guido è uno strazio: ferito, fugge, cerca scampo in casa d'una donna, è scovato, trasportato altrove in fin di vita e sterminato. Da qui cominciano per il fratello sopravvissuto il calvario e l'apoteosi. 
Per una misteriosa rivalsa, Pasolini si avvicina proprio ai comunisti, affascinato da un episodio di lotta di classe dell'immediato dopoguerra: le lotte bracciantili all'epoca del lodo De Gasperi. Al quasi ellenistico idillio originale si sovrappone e si fonde la felicità di sentirsi profeta e vate d'un pezzo di popolo, che si ritrova nella propria lingua e nel proprio orgoglio. Ma l'arcadia, anche sociale, non è possibile. Vigilia delle elezioni del 18 aprile '48: un ragazzetto confessa al parroco d'aver avuto rapporti sessuali con Pasolini: il prete, violando il segreto del confessionale, corre a raccontarlo a quelli della Dc; i giornali cattolici sbandierano il fatto a prova della protervia comunista. Frettolosamente il Pci locale prende le distanze dallo scomodo poetino. Pasolini ha 28 anni. Fugge a Roma. Due anni di miseria, di umiliazione, di non lavoro o di lavori malpagati. Eppure è il suo secondo periodo di grande felicità. Giorno e notte percorre in lungo e in largo la Roma barocca, e il suo fasto, e la Roma popolare, e la sua triviale e insieme inesauribile fantasia. Una realtà sontuosa e stracciona, gloriosa e bieca; ma Pasolini è un re Mida che trasforma il mondo che tocca. 
Il suo eros, la sua forza fisica, la sua gioia di vivere sembrano non avere limitazioni; l'umiliazione del '48 pare dimenticata. Ma la gloria e i processi che gli arrivano a metà degli anni Cinquanta, con Ragazzi di vita, lo spingono in una "diversità" che più lo imprigiona e più gli sembra oscena, disumana. "Diverso" com'è per costrizione sociale, da questo momento lotterà disperatamente per non rinnegare se stesso. Ma come i suoi "Riccetti" non riescono a uscire dall'adolescenza se non con la morte, così per Pasolini le soluzioni ottimistiche di Una vita violenta (diventare un buon "compagno") non risolvono nulla. Il terzo e ultimo momento di felicità è quello della scoperta della sopravvivenza del sottoproletariato nel Terzo mondo, in Arabia, in Africa, e dell'eros panico che ancora vi fiorisce. Ma è una felicità di ritorno. Il ricordo della friulana felicità originaria gli dà l'illusione che l'estremo attimo fosse fatto durare. Ma, anche questo paradiso cambia rapidamente. È il tempo che ormai manca a Pasolini. 
A metà degli anni Cinquanta Pasolini visitava la realtà 24 ore su 24; nel '60, come scrisse, vi dedicava l'intero pomeriggio e la notte; nei giorni che hanno preceduto la sua morte, non gli rimaneva, per andare in cerca della sua realtà differente da quella di tutti gli altri, se non qualche ora notturna. A Parigi, il giorno prima di morire, racconta Philippe Bouvard, guardava sempre l'orologio: veniva da Stoccolma, aveva fretta di tornare a Roma. A Roma, quel giorno fatale, ebbe troppi impegni. Quel paio d'ore, tra le 22, quando lasciò Ninetto Davoli e la famiglia, e l'una circa in cui morì, erano un tempo troppo breve per la felicità. 


In quel mucchietto di stracci insanguinati,
di Cristina Mariotti

"Ma chi è quer fijo de mignotta che ha scaricato 'sta monnezza sotto casa mia?, me so' detta appena l'ho visto: pareva un sacco di stracci. E invece era n'omo. Morto". Sono le 6,30 di domenica 2 novembre quando Maria Teresa Lollobrigida in Principessa, in gita con la famiglia nella sua villetta abusiva al centro della baraccopoli più squallida di Ostia, denuncia ai carabinieri la sua scoperta. Ci vorranno altre due ore prima che "il sacco di stracci" venga identificato in "Pasolini Pier Paolo, di Carlo, anni 53, nato a Bologna, residente a Roma, di professione scrittore e cineasta (precedenti penali fascicolo modello 22 cfr. archivio della squadra mobile)". Il regista, lo scrittore, il poeta, il "diverso" geniale e famoso è fissato dal mattinale dei carabinieri nella sua ultima e più drammatica dimensione: quella di un omosessuale morto ammazzato. Scena del delitto: via dell'Idroscalo, a Ostia. È un tortuoso percorso di terra battuta che separa le baracche "per tutte le stagioni" dei senza tetto, dalle "baracche per l'estate" dei sottoproletari romani tirate su abusivamente "per far fare un po' di mare ai bambini". A pochi metri dalla spiaggia, una sottile fettina di sabbia nera e sporca, via dell'Idroscalo si apre a destra in uno sterrato che i ragazzi del posto hanno trasformato in un rudimentale campo di calcio: alle due estremità quattro tubi metallici simulano le "porte". È qui che Pasolini è stato aggredito, colpito, massacrato a colpi di trave dal suo giovanissimo partner nella notte tra il sabato e la domenica. Ha tentato di salvarsi fuggendo e ha tracciato sulla ghiaia con il sangue il disperato percorso. È stato finito poco oltre, schiacciato dall'assassino sotto le ruote della sua stessa macchina. "La vittima", si legge nel verbale degli inquirenti, "giace bocconi con le mani unite sotto il torace; presenta ferite da corpo contundente sulla nuca e sulla faccia, abbondanti emorragie e fuoruscita di sostanza cerebrale; sopra la schiena tracce di pneumatici... indossa una canottiera verde, blu jeans, calzini marrone, stivaletti marrone, biancheria ordinaria..,". "Strano", commenterà un brigadiere, "uno come lui era più logico pensarlo in mutandine dl seta". Ma chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini? E perché? Via via le risposte si dipanano sul filo di due storie apparentemente parallele. 
Sono le due di sabato notte, sul lungomare Duilio, a Ostia, una Giulia grigia sfreccia a 170 all'ora. Una "gazzella" dei carabinieri si butta all'inseguimento: eccesso di velocità. La corsa della Giulia "Gt" si arresta contro un muro. Il guidatore è un minorenne "inquieto": Giuseppe Pelosi, 17 anni, precedenti per furto. Quando si vede braccato resiste, tenta la fuga. Ma inutilmente. Viene acciuffato e incriminato per furto: l'auto, che risulta intestata a Pier Paolo Pasolini, è stata rubata. Di qui, parte un sorprendente giallo ad incastro. Primo pezzo: un appuntato telefona a casa del regista, a via Eufrate all'Eur, per segnalare il ritrovamento della Giulia. Risponde la governante. È sorpresa che Pasolini non sia ancora rientrato: "Di solito", dice, "se tarda avverte". Secondo pezzo. Il ragazzo si ricorda all'improvviso di aver perduto un anello: "forse è nella macchina", suggerisce ai carabinieri, poi lo descrive dettagliatamente: una pietra rossa incastonata tra due aquile dorate e sotto la scritta "United States Army", insomma, un oggetto più adatto a un "marine" che ad un romano di borgata. Terzo pezzo. L'anello in macchina non c'è. I carabinieri si fanno sospettosi: "Ma perché 'sto ragazzetto ci tiene tanto?", si chiedono. E ancora: "Come si fa a perdere un anello? Occorre prima sfilarlo dal dito. Tranne che qualcuno non ce lo tiri via. Magari durante una colluttazione". E il ladruncolo aveva, al momento dell'arresto, la camicia macchiata di sangue e una ferita sulla fronte. Si cerca di prendere tempo. Quando il brigadiere Cuzzupé batte a macchina l'ultima cartella del verbale, si è fatta l'alba. Poco dopo, la notizia che all'Idroscalo hanno trovato un morto. Nel sopralluogo, accanto al cadavere. della vittima, qualcuno vede brillare un anello. È esattamente quello descritto da Giuseppe Pelosi: il topo d'auto è anche l'assassino dell'Idroscalo? Poco dopo, Ninetto Davoli, arriverà per il riconoscimento. All'una di domenica Pelosi confessa. Ha ucciso Pasolini, dice, perché "non voleva stare al patti. Il maschio dovevo farlo solo io e non uno alla volta". 
È questa la verità sulla fine di Pasolini? La sproporzione fra la statura del personaggio e la banalità della sua morte, per quanto prevedibile (tempo fa aveva confidato a Moravia: "sai ogni volta che esco per una 'battuta' sento di rischiare la vita"), ha fatto nascere in qualcuno dei dubbi. I due si conoscevano? È questa la prima domanda. Se la risposta fosse affermativa, anche l'ipotesi di un delitto diverso, una vendetta di gruppo o magari un delitto politico sarebbe meno irreale di quanto appaia a prima vista. Comunque, lo scenario della sua morte se l'è scelto lui: una squallida baraccopoli, all'aperto. "Conosceva la zona perché forse ci voleva girare un film", ha osservato il capitano dei carabinieri Tommasselli. "Sì, e come no?", ha rintuzzato un cronista con eschimo, "e sai il titolo? 'Ciak, si gira il mio assassinio'". 


Ma che cosa aveva in mente?,
di Alberto Moravia

Chi era, che cercava Pasolini? In principio c'è stata, perché non ammetterlo?, l'omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell'eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l'amore; come dall'amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l'omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l'eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua.
Accanto all'amore, in principio, c'era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, "romantico", cioè animato da una pietà patria arcaica, non comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell'utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (do qui alla parola "sentimentale" un senso esistenziale, creaturale e irrazionale). Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l'uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l'affermazione della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi, personale. 
Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra. La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall'inizio dell'Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D'Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un'operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l'utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in eguale misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece miracolosamente in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva. 
Questa poesia civile raffinata manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all'utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella rivoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull'esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele, appunto, per umiltà profonda e inconsapevole, al retaggio di un'antica cultura contadina. 
Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il "boom" , cioè si è verificata ad un tratto l'esplosione del consumismo. E cos'è successo col "boom" in Italia, e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di Accattone e di Una vita violenta, quegli umili che nella Passione secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori per diventare un'altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi. Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim'ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l'imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo. Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all'utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile. 
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l'imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l'inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all'esperienza dell'umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione. Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Di qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni. Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l'aveva fatto per sostenere l'utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumista e l'edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l'amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l'aveva allontanato dai luoghi e dai personaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica, l'avevano così potentemente aiutato a crearsi la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa; ma in privato, a quanto pare, si illudeva pur sempre che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola. La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un'epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.


Perché non sempre eravamo d'accordo,
di Umberto Eco

Quando ho sentito la notizia alla radio ho avuto un primo moto di rimorso: mesi fa, a proposito del suo articolo sull'aborto, lo avevo attaccato con cosciente cattiveria, e lui se ne era molto risentito, contrattaccando (una sola battuta nel corso di un'intervista) con altrettanta cattiveria. E al saperlo morto ammazzato, così bruttamente, ho avuto un sentimento di colpa, come se quei segni sul suo corpo fossero le tracce di un lungo linciaggio, a cui anch'io avevo preso parte. 
Poi mi sono reso conto che non era quello il punto. Lottatore per vocazione, per rabbia e per baldanza, Pasolini l'attacco lo cercava, lo stimolava quando la reattività pubblica si assopiva, si sentiva vivo solo quando poteva dire: "Perché mi sparate addosso?". 
Lui sosteneva: la società mi lincia perché sono diverso, e certo il primo moto di ribellione gli era venuto dal sentirsi respinto ai margini per quella sua diversità sessuale che esponeva a tutti i venti con esasperata sincerità. Ma questa stessa sincerità lo aveva, per così dire, autorizzato a gestire pubblicamente la sua diversità. Certo, la società non perdona mai del tutto ai diversi, se non li punisce li ricatta con l'ironia, ma lui avrebbe almeno potuto sentirsi in fase di armistizio. E invece dall'esperienza originaria della diversità sessuale, gli era venuto l'altro impulso (forse più sublimato, o più socializzato, non so) a crearsi una situazione di diversità ad oltranza. Con un fiuto rabbioso per le posizioni impopolari. Una vocazione alla emarginazione, dunque, a dispetto del successo, anzi usando il successo come frombola per lanciare altre provocazioni che obbligassero gli altri a sparargli addosso. Un gioco pericoloso, sul filo della corda, dove le idee che metteva in questione contavano sino a un certo punto, talora erano tipiche scelte teatrali: il gioco del Bastian contrario. Si diceva una volta, per scherzo, che un giorno avrebbe affermato che i poveri sono cattivi per avere la soddisfazione di vedersi svillaneggiato da tutti: bene, lo ha fatto. 
Era qualcosa di più di una vocazione masochistica, qualcosa di più ambizioso e di più tragico: una mimesi mistica del Crocifisso, naturalmente a testa in giù, nella scia di quegli gnostici che asserivano che il Figlio per arrivare alla purificazione, avesse dovuto commettere tutti i peccati possibili. Se questo è vero, egli era l'ultima personificazione di un superomismo romantico, il poeta che vive di persona il proprio ideale estetico; salvo che l'esteta della decadenza incarnava sogni di gloria fastosa ed egli invece sogni di spaesamento e persecuzione; quindi se modello c'era, era Rimbaud e non D'Annunzio: anche nel successo egli aveva scelto di testimoniare l'emarginazione. La conoscenza primitiva della emarginazione sua e altrui lo aveva segnato per la vita, così che non poteva più rifiutarsi a questo gioco, anche se la società era disposta a integrarlo. Anche in questo è stato contraddittoriamente coerente, astuto come il serpente e candido come la colomba. Ciò che lo limita è semmai il fatto che avesse deciso di emarginarsi come testimone dei propri umori e non come portavoce di una coscienza collettiva. Di qui l'esito oggettivamente regressivo di certi suoi appelli eversivi: il confondere la società futura con una società "naturale", adolescente e incontaminata solo nei suoi ricordi privati. Che è poi il rischio del poeta quando presenta la memoria come utopia. Di qui le sue lucciole pauperistiche, i paradossi di un paternalismo preindustriale tutto sommato più "naturale" del consumismo tecnologico. Ma è che la violenza positiva del suo messaggio non stava nei contenuti, bensì negli effetti di cattiva coscienza che riusciva a produrre. Erano un pretesto per essere rintuzzato e testimoniare così che l'emarginazione esisteva ancora. Segno di contraddizione, il suo genio consisteva nell'impostare il gioco in modo che a contestarlo ci si cadeva dentro. Anche ora, dopo la sua morte. All'obiezione: "Sei morto come uno dei tuoi personaggi, non sei contento?", egli risponderebbe: "Sono morto, siete contenti?". E a dirgli: "Hai cercato di mostrarci che il mondo della borgata selvaggia del dopoguerra era più puro e mite di quello della borgata consumistica, e sei morto in un episodio da borgata all'antica", egli obietterebbe: "Parlavo della violenza di oggi e sono morto oggi, mi ha ucciso la vostra violenza che mi ha spinto a una ricerca impossibile". 
Allora, per uscire dal suo gioco, non resta che vedere se si può utilizzare la sua morte come lezione che non riguardi lui solo. Ci provo. Egli ci ha ripetuto che c'erano dei diversi respinti ai margini, e che non avremmo mai capito appieno la loro sofferenza. La sua morte ci ricorda che, per quanto rispettato dalla società, un diverso deve pur sempre tentare la sua ricerca in luoghi oscuri, dove c'è violenza, rabbia e paura (la stessa del ragazzetto che fugge come un pazzo sulla macchina della sua vittima). E se i diversi che hanno il coraggio di definirsi tali devono ancora rifugiarsi ai margini, come i diversi che hanno paura, questo significa che la società non ha ancora imparato ad accettare né gli uni né gli altri, anche se fa finta di sì. 
Certo Pasolini avrebbe potuto permettersi di vivere la sua diversità altrove che non alla macchia. Può darsi abbia voluto continuare a farlo per orgoglio. Ora ci impone un esame di coscienza fatto con umiltà. 


A rischio della vita,
di Giovanni Testori 

Sull'atroce morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte dl un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi". 
Allora, quando Il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere dl fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s'abbia neppure il tempo per fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita. 
Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d'intendere. 
Si parte; e non si sa dove s'arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s'è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella "nientità" della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s'allungano; più difficile si rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la "via crucis" della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, dl quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra? 


Il mio inferno, 
di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini si lasciò sfuggire per la prima volta l'accenno a un manoscritto che voleva riproporre i primi canti dell'Inferno dantesco, una sua Divina Mimesis, nella sala della Balla al Castello Sforzesco di Milano durante il festival dell'"Unità" del 1974 in un dibattito sui giovani. Nel gennaio dell'anno dopo, Pasolini sciolse il suo contratto con la Garzanti e passò all'Einaudi con cui pubblicò La nuova gioventù e Il padre selvaggio (apparso recentemente nei "SuperCoralli"). La divina Mimesis, che egli considerava a tutti gli effetti un libro compiuto, una specie di modello di rilettura dei classici su cui tornare magari in un secondo momento, uscirà a fine novembre nella collana "Einaudi Letteratura". Qui pubblichiamo, come anticipazione, il VII Canto: Pasolini-Dante, accompagnato da Pasolini-Virgilio, incontra una particolare specie dl peccatori: conformisti, piccolo-borghesi, uomini di cultura... 

Prefazione. Dice Pasolini nella prefazione: "Do alle stampe oggi queste pagine come un "documento", ma anche per fare dispetto ai miei "nemici": infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all'inferno. Iconografia ingiallita: queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una, peraltro assai leggibile, 'poesia visiva'". P.P. Pasolini. 

VII Cantica. Un cartello indicatore, nuovo di zecca, col paletto tinto di acrilico blu e il riquadro di rosso, portava la scritta alquanto deprimente: "Opera incremento pene infernali (Oipi) zona troppo continenti, o riduttivi, settore 1. Conformismo". 
"In questa zona", mi disse la mia guida, vergognosamente, come sempre, per il terrore di decadere ai volgari dati di fatto, cosa che inceppava in lui la lingua e gliela sbriciolava nella gola, "in questa zona non vedrà pene, in senso figurativo, come dire... I conformisti piccolo-borghesi hanno compiuto anche, e insieme, peccati più atroci che quello di essere conformisti... Cioè: il conformismo fu la base necessaria dei loro peccati, l'indispensabile premessa. Per conformismo ci furono, ad esempio, dei religiosi praticanti, dei benpensanti del tutto dediti al lavoro e alla famiglia che finirono col farsi fare le fodere delle poltrone con la pelle degli ebrei gassati...". Quasi esausto per questa battuta, a suo modo conformista, cioè priva dell'impeto della novità scandalosa - prodotto diretto di una cultura, quella della resistenza, che egli sapeva bene trovarsi ormai in uno stato di piena istituzionalità - egli tacque per un po', e, aggrottato e colmo di pena, estrasse dal taschino dei calzoni un tubetto di optalidon e ne inghiottì una pillola. "Coloro che qui sono condannati, sotto questi cartelli", spiegò ancora, "non furono dei piccolo-borghesi se non per nascita, per definizione sociale eccetera. In realtà essi avevano, come si dice, gli strumenti necessari per conoscere il loro 'peccato', sapevano cioè come non essere conformisti. E invece lo furono". Camminammo per quella bella strada, alta sulla palude: le ringhiere di metallo bianco, i ponticelli svelti sulla belletta, e massicciate di cemento su cui, sotto, premeva folta e invincibile un'erba selvatica piena di ortiche. "In questo luogo", aggiunse laconicamente la guida, "la sola pena è esserci". 
Una sbarra simile a quella dei passaggi a livello delle strade ferrate, o dei confini tra Stato e Stato, era abbassata, sulla strada, con le sue strisce bianche e rosse, appena dipinte, ancora odorose di vernice. Dietro la sbarra, la strada si allargava, diventava un immenso piazzale di asfalto, di quelli che si stendono davanti agli stadi o alle grandi piscine, per il posteggio di migliaia e migliaia di automobili: ma nelle ore in cui non c'è partita ed è il crepuscolo e, col crepuscolo il vuoto... Nient'altro se non l'asfalto e l'immensità, empiti dalla malinconia del sole che si ritira, e colpisce quasi accecante le cose vicine, mentre quelle lontane sfumano in un chiarore spettrale che le rende vaghe e senza limiti. 
Accanto alla sbarra abbassata, c'era una costruzione di cemento, abbastanza sobria ed elegante: dietro, verso la distesa della palude, c'era perfino la parvenza di un giardino, all'inglese, sia pur triste come tutte le cose statali. Davanti a questa costruzione - ufficio di dogana e caserma - c'erano le demonie. Sì: in tutta quella nuova zona, come abbiamo visto a cura dell'Oipi, si stavano infatti sperimentando nuovi reparti di polizia infernale femminile. Evidentemente la mitezza dei peccatori di quel settore giustificava tale esperimento: si trattava per lo più di uomini di cultura, abituati a starsene zitti nei momenti di pericolo, e a parlare, soltanto a parlare, nei momenti di relativa tranquillità. Le demonie, come tutti i novizi, si prendevano il loro incarico molto a cuore. I loro occhi erano carichi di una luce nera e nemica, ancora peggiore dl quella dei demoni maschi. Il terrore di essere impari al compito le rendeva evidentemente feroci. Ci odiarono subito per l'eccezione a cui le costringemmo: cioè ad alzare le sbarre per far passare due estranei. Aprirono, e noi entrammo nel piazzale, parcheggio sconfinato senza una macchina, perduto nella penombra. 
Quivi era radunata una grande folla di gente, tutta insieme. Fra la grande folla che, sparsa e divisa, nelle lunghe sere in cui tardano ad accendersi le luci, si ritrova, appunto, nei piazzali, nei parchi, sotto i castani estivi dei lungofiumi, nelle terrazze degli attici tra piante grasse, nelle distese dei tavoli dei bar all'aperto davanti ai chioschi dei quartieri ricchi. Oppure negli interni - già raccolti nell'aria della cena o dell'immediato dopocena - con le finestre ancora spalancate sul buio del crepuscolo appena sceso e minacciosamente dolce. 
Come venuta appunto da tutti quei luoghi - dalle capitali, Roma, o Londra, o Parigi, o dalle grandi città di provincia - tutta quella gente era accalcata insieme, nell'ombra indistinta, sussurrando. 
"Oh, Pasolini!", sentii chiamarmi, come per l'appunto ci si chiama tra la folla di un cocktail con gentilezza speciale. Quel bel "Oh, Pasolini" era molto dolce. Ma proprio autenticamente dolce. Non era nel settore degli ipocriti che mi trovavo. Si trattava di un gruppo di donne. No, di signore. Le guardai col mio sguardo miope, che, per la timidezza, si fece annoiato, o restio, o, in qualche modo, non riconoscendo, irriconoscente. "Tutta questa gente", disse il maestro, "ha peccato contro la grandezza del mondo quasi per istinto. La riduzione di tutto è avvenuta in loro per una specie di difesa... Ah", sospirò, "non erano in grado di raccontarsi la grande affabulazione... di fare gli orlandi e i donchisciotti", e sorrise, fiaccato ancora una volta dalla sua generosa incapacità a usare una lingua corrente, "e così, furono vas di riduzione..." Gli si tese la bocca nel sorriso da discorso da caffè, povero maestro mio, impavido, nell'assunzione a un livello di grande cultura e di grande passione, della banalità. E continuò, per pura gentilezza, per disinteressato amore della conoscenza: "È un peccato nato con la piccola borghesia, dopo la grande industrializzazione, dopo la conquista delle colonie. Prima, la gente piccola era piccola: non voleva esserlo. Insomma... tutta questa gente, per paura della grandezza, è istintivamente mancata di religione. Riduzione, spirito di riduzione, è mancanza di religione: questo è il grande peccato dell' epoca dell'odio. E infatti in nessun'altra parte dell'inferno vedrà tanta gente. Le masse, amico mio!, che hanno eletto a religione il non voler averne, senza saperlo". 
Arrivò la demonia con la birra. Nemica, la pose sul tavolo, con lo scontrino, e se ne andò. "Avrai notato il grande numero delle donne... Eh, per forza. In loro la riduzione, come si dice, è antica come la specie: esse difendono la razza, oltre a sé, poverine. Ed è perciò che in esse il conformismo ha sempre una certa grandezza. È, in fondo, la loro religione. Ma i maschi!", e gli occhi gli si riempirono di una malinconia simile allo spasimo di un dolore fisico: era ben nota la facilità con cui gli si stringeva il cuore, e ora evidentemente il destino di quei maschi, che erano riusciti a portarsi nella tomba, intatta, la loro piccolezza di borghesi... di vas di riduzione... lo sconvolgeva. 
"Beh, ciò che in tutto questo mi stringe il cuore è il pensiero di quanto odio è costata loro la salvaguardia della loro meschinità. Quelli che ha visto si sono limitati alla difesa di essa. Ma mai in tutta la storia si videro peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza. Penso a Buchenwald e a Dachau, a Auschwitz e a Mauthausen". E ancora una volta la sua autentica indignazione era come stinta e umiliata dall'invecchiamento subito col trascorrere degli anni. Ma c'era. È con essa, in essa, ogni possibile vera poesia. 
Così stemmo a lungo in silenzio, persi dalla commozione che dà la ripetizione - in speciali circostanze o in speciali stati d'animo - di qualche vecchia verità ancora buona. Era difficile interrompere la comunione che si era stabilita fra noi nell'indignazione, mite e conoscitiva: qualsiasi parola aggiunta sarebbe stata di inutile contorno... 
Ma bisogna sempre interrompere tutti gli incanti anche quelli della mitezza e della conoscenza, i più sacri dell'uomo. Bisogna fare come faceva il Cristo dei vangeli che, appena stabilito un incanto - la pausa contemplativa dopo una parola che poteva essere senza fine interrogata e pensata in silenzio - ne stabiliva subito un altro, che non dava pace, quasi con crudeltà. 
"Dopo questo Motel, comincia una parte a sé della zona dei riduttivi, un settore separato, come vedrà. Vi incontreremo, è vero, ancora dei riduttivi - o troppo continenti - ma in loro l'errore ha trovato una spiegazione e una coscienza: si è elevato in qualche modo alla dignità di religione. È tuttavia una religione degradata, perché, come le sarà facile capire, ha dovuto dare grandezza a una parte della realtà soltanto a patto di sacrificarne un'altra... Ma andiamo...". 
Con fervore - con i suoi gesti di sportivo angosciato - si alzò, lasciò alle spalle il Motel, si avviò per la grande strada, coi suoi paracarri, la sua siepe centrale, i suoi marciapiedi, le sue linee divisorie ora unite ora tratteggiate, le sue piazzole d'emergenza, i suoi ponti eleganti sui sordidi, decrepiti canali di fango. 
Ma man mano che ci avvicinavamo al confine, con la sua sbarra e la sua costruzione poliziesca, l'aria si faceva sempre più buia. Come una notte che scendesse all'improvviso, con la rapidità di un temporale. Tutto fu ingoiato dal buio. E si fece appena in tempo a vedere il cartello indicatore: il solito Oipi, seguito stavolta dalla scritta: "settore autonomo raziocinanti: irrazionali e razionali". 
Le sbarre le sollevarono nel buio più fitto, al lume di sinistre pile, le demonie chiuse nel loro feroce silenzio di novizie: e ci lasciammo alle spalle il dardeggiare di quei lumi. 
Camminavamo ormai, nel buio più fitto. 
L'altra sfumatura del peccato della normalità (o della continenza), dopo quella del conformismo, è quella della volgarità. L'accezione di questa parola va forse precisata prima di entrare nel nuovo settore, appunto dei volgari, dietro le sbarre abbassate, con le diavole scontente, dagli occhi obliqui. La volgarità è il momento di pieno rigoglio del conformismo... L'ambiente che si parò davanti ai nostri occhi non era molto diverso da quello che avevamo lasciato. Nel regno delle ombre è naturalmente più difficile cogliere le differenze che ci sono tra Roma e Milano. Ma il verde della campagna e il grigiore del cielo erano quelli del Nord. Dietro la folla. che composta e decente, un po' provinciale, alzava, cosparso di qualche riso, il suo brusio, si sentiva la grande fossa contadina del Po in magra. In un ambiente simile, a Roma, per esempio in un ricevimento in Quirinale, con la luce sfacciata del pomeriggio che entra dai finestroni, c'è sempre qualcosa di un po' sporco e levantino per cui il cuore può stringersi. Qui no. Un conformista a Roma, in Quirinale, può anche mostrare, volente o nolente, i suoi punti deboli e le sue miserie... può mostrare, come un lebbroso, le sue piaghe, la sua povera immoralità purulenta, e può perciò suscitare un sorriso o un sospiro di pietà. Invece i volgari del Nord sono morali. Ciò che è repellente in essi è proprio tutto ciò che di lecito e consentito include il loro moralismo di solida tradizione. 
 

L'altra vittima ha diciassette anni, 
di Cristina Mariotti 

Diciassette anni e quattro mesi. Nato al Prenestino, vissuto al Collatino, educato al Tiburtino; era l'incarnazione di quel modello di degradazione giovanile, "criminaloide" e cinica tante volte teorizzata e illustrata da Pasolini nei suoi più recenti interventi. Pino Pelosi era "buono come il pane", dicono di lui i suoi amici. Figlio di un commesso e di una curatissima e giovanile "colf" a ore, non aveva mai avuto altri messaggi pedagogici che qualche pedata e ripetute scariche di ceffoni. Poi tanta libertà. I suoi manuali formativi: Tex, i fumetti neri, le avventure di guerra. I film li preferiva con tanti cannoni, assalti di trincee e un sottofondo sonoro di mitragliatrici crepitanti e aerei in picchiata. Se fosse nato in America, diceva, avrebbe fatto il sottufficiale dei "marines". Esperienze di lavoro poche e tutte fallimentari. (Come garzone di fornaio non era andato bene, tentava di fregare il cliente e il padrone; come aiuto carrozziere era un inetto: si pestava le dita invece di martellare le lamiere; come operaio era un disastro: aveva provocato una mezza catastrofe giocando con una gru che non doveva neanche sfiorare). Si era messo sulla strada a quindici anni e a diciassette aveva già imparato molte cose: a rubare una macchina e a saperla rivendere e a battere il marciapiede con i "schiacciabozzi" che si piazzano la sera al Circo Massimo, alla stazione Termini e al Lungotevere delle Navi in attesa di clienti generosi e discreti. Pino Pelosi non era ancora un professionista smaliziato. In fondo era troppo intriso di cultura rozzamente maschilista per essere un buon "prostituto": pensava troppo ai duri e ai cow-boy, ai tenenti Rogers e alla "squadriglia dei temerari" per dimenticare i tabù. Si dava ma non si concedeva, non era un eclettico, un "montone-culattone". Al suo "onore" ci teneva. Ha detto al magistrato e agli investigatori, nel corso della sua confessione fiume: "Voleva invertire le parti. Ho detto di no. Lui mi ha colpito urlandomi porco. Io porco. E lui che era? Allora non ci ho visto più e mi sono messo a colpire con tutta la forza che avevo". Sapeva che il suo cliente era Pasolini? Il ragazzo ha risposto di sì. "E certo, altrimenti perché ci sarei andato?". 
 

E ogni giorno ci ammazzano a decine, 
di Angelo Pezzana

Angelo Pezzana ha scritto a nome di tutti i militanti e le militanti del "Fuori" (Fronte unitario omosessuali rivoluzionari) presenti al congresso radicale, questo intervento. 

La morte orrenda di Pier Paolo Pasolini ci riporta ancora una volta al discorso della violenza che ogni giorno viene commessa nei confronti degli omosessuali. Ogni giorno vengono assassinati, aggrediti, "suicidati" decine e decine di omosessuali, dal nome sconosciuto e che finiscono perciò solo nella cronaca nera. Noi omosessuali infatti siamo sempre stati solo "cronaca nera". Il nostro ambiente è "torbido", "squallido", e se qualcuno di noi ci rimette la pelle, beh, è un finocchio di meno. Nessuno si è mai posto il problema del perché gli omosessuali vadano a battere nei gabinetti delle stazioni, nelle ultime file di certi cinema, nei parchi o nei boschi. Nessuno ha mai detto che ci hanno "costretti", che dobbiamo vivere in modo così drammatico la nostra sessualità perché la società eterosessuale e maschile in cui viviamo non ci ha mai concesso altri spazi. Noi siamo quelli di cui è meglio non parlare, a meno di non essere ammazzati violentemente, noi siamo solo quello che l'immagine pubblica corrente, un'immagine mistificata e manipolata da "tutti" i mezzi d'informazione, vuole che siamo. Questa volta è toccato ad un omosessuale famoso, e dalle pagine interne di cronaca nera l'omosessualità è passata alle prime pagine di tutti i giornali. Non come dibattito ed informazione seria, politica, ma solo perché è stato ammazzato un omosessuale conosciuto da tutti. Noi vogliamo commemorare diversamente Pier Paolo, ci vergogneremmo profondamente se lo facessimo in altro modo. Chi parlerà, chi scriverà di Pier Paolo Pasolini omosessuale? Chi dirà che è morto come muoiono migliaia di omosessuali? Noi siamo profondamente stufi di tutte queste mostruosità. Noi riteniamo responsabili della morte di Pasolini, al di là del criminale che lo ha ucciso, tutti i cittadini che continuano a bearsi della loro ignoranza del problema, o a considerarsi tranquilli solo perché si sentono a posto in quanto "democratici". Consideriamo responsabili del massacro di Pasolini gli artefici di tutta quella cultura psicanalitica e psichiatrica che ci raffigura come dei malati e contribuisce così a rafforzare il ghetto in cui ci hanno rinchiuso, consideriamo criminale Ignazio Majore, antifemminista ed antiomosessuale che dalle colonne di "Paese Sera" ha scritto giudizi vergognosi su Pasolini e sull'omosessualità. Consideriamo criminali tutti quei mezzi d'informazione che non hanno ancora capito il dramma spaventoso e fatto di oppressione in cui vivono gli omosessuali. In questo modo pensiamo debba essere ricordato Pier Paolo Pasolini, con un senso di amore e rispetto verso la sua memoria e verso il ricordo di tutte le migliaia di omosessuali sconosciuti, torturati, massacrati, uccisi come lui.
.






 


I ricordi - "L'Espresso" del 9 novembre 1975

Vai alla pagina principale