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La vita Renzo Sansone e la sua verità Sansone è un signore alto e snello che non dimostra i suoi 60 anni. Da tempo ha smesso di travestirsi per raccogliere le confidenze della malavita. Fa la parte di se stesso. Vive in campagna. Se va in città lo fa soltanto per vendere oggettistica e modernariato ai mercatini rionali, hobby che condivide con la moglie. Come fa ad essere così convinto che 33 anni dopo ci possa essere ancora una verità? I due Borsellino sono morti di Aids intorno alla metà degli anni ’90. Che valore ha la confessione di Pelosi?«Quando mi confessarono di aver partecipato al delitto mi dissero che con loro c’era “Johnny il biondino”, Giuseppe Mastini, detto anche “Johnny lo Zingaro”. Lui è ancora vivo, sta scontando 3 ergastoli. Portava un plantare per una ferita riportata durante una colluttazione con la polizia. Quel plantare è custodito ora nel Museo di Criminologia. Basterebbe sottoporlo ad esame. Garofalo, comandante dei Ris, è in grado di farlo». Perché non le credettero e dopo qualche giorno scarcerarono i due ragazzi?«Non chiedetelo a me. Ma chiedetevi come mai nel processo d’appello è rimasta la condanna per omicidio ma è scomparso il “concorso con ignoti”. A far sparire gli “ignoti” fu l’avvocato Rocco Mangia sostenendo che così facendo Pelosi se la sarebbe cavata con poco. E la mamma di Pino era d’accordo, tant’è che si arrabbiò moltissimo quando i due fratelli vennero arrestati. Io ero solo un carabiniere della compagnia di Monterotondo. Un informatore che frequentava la bisca mi disse di aver saputo che ad uccidere Pasolini erano stati in 4. Lo riferii al capitano Gemma che a sua volta lo disse al tenente colonnello Vitali. L’ordine di agire sotto copertura partì dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni Santanziero». Ma lei ne parlò ai giudici?«Solo una volta, il 16 febbraio del 1976 al sostituto procuratore Giunta. Gli raccontai di come avevo fatto a conquistarmi la fiducia dei due. Fu Giuseppe, il più piccolo, a spifferare tutto. Lo fece per vantarsi. Finsi di progettare il rapimento del figlio di un noto cantante. Li avevo anche portati sotto una villa alla Bufalotta dicendo che abitava lì ma non era vero. Per farsi “grande” ed essere reclutato nella banda, Giuseppe mi raccontò cosa era realmente successo quella notte all’Idroscalo. Franco s’infuriò col fratello ma poi gli passò “perché tanto ero uno di loro”. Mi disse che non avrebbe voluto arrivare a tanto ma Pasolini si era difeso. E per un attimo mi sembrarono due persone normali, dispiaciute, voglio dire, per quello che era successo. Avevano gli incubi: tutte le notti sognavano Pasolini nel sangue e le sue urla». Però in carcere dissero che si erano presi gioco di lei.«Peccato che però tutto il resto era vero. A casa loro, dove ancora abita la madre, durante la perquisizione fu trovato di tutto: pistole, refurtiva, pezzi di ricambio. Se si stavano burlando di me perché mai mi avrebbero raccontato anche questo?». Una gang di minorenni. E le altre piste?«Non ho mai creduto al delitto politico. Forse solo perché ho sentito con le mie orecchie il racconto di quei ragazzi. E li ho visti all’opera. Il padre, un ex pugile, si era suicidato l’anno prima. Ha presente il contesto? Il degrado, gli immobili dell’Ina Casa? “Pelosino” fra tutti era il più fregnone. Loro lo dicevano sempre. Un giorno per regalarmi due gomme nuove per la mia “500” i due a momenti accoltellavano un tizio. Ho dovuto fermarli con una scusa sennò lo uccidevano». E il silenzio di tutti questi anni?«Mi sento offeso e vilipeso da questo silenzio. Vorrei, dopo tante prove e indizi forniti, che qualcuno finalmente stabilisse la verità».
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