"Pagine corsare"
Vita
Neri & Oro Nero
di Davide Nota, 9 marzo 2009
Perché tornare dopo trentaquattro anni sulla vicenda giudiziaria ai più nota come il “caso Pasolini”? Innanzitutto perché nella densa ragnatela di trame nazionali ed atlantiche in cui si è andata a consumare “la guerra civile” (espressione rubata da un bel titolo di Giovanni Pellegrino, per Bur) dei nostri anni di piombo, ogni evento cronachistico allora apparso come isolato inizia oggi a contestualizzarsi in un più razionale mosaico storico e geo-politico che non riguarda solamente il passato e che anzi continua incessantemente a riformulare e condizionare la nostra Storia presente. Aiutano senza dubbio le ricerche storiografiche svolte dal già nominato Senatore Pellegrino all'interno della coraggiosa “Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” (1988-2001), i cui atti sono consultabili dal sito web del Parlamento italiano, ma anche il lavoro di tanti singoli cittadini che hanno continuato, in questi anni di disimpegno, a lavorare e a battersi per “ristabilire la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero” (sono parole di Pasolini).
Si ricordino almeno le ricerche storiografiche di Sergio Flamigni sulla P2 e sulle “trame atlantiche” (che danno anche il nome a un importante libro edito per le Kaos edizioni), le indagini del giudice Vincenzo Calia sul delitto di Enrico Mattei, o in ultimo il prezioso contributo dello scrittore Gianni D'Elia sull'omicidio del poeta corsaro, con il pamphlet di indagine Il Petrolio delle stragi (Effigie, 2006) su cui ora ci concentreremo.
La “narrativa” generale all'interno della quale si sviluppa il discorso di D'Elia è la seguente: una rete di grandi poteri atlantici e di piccoli poteri nazionali dai primi dipendenti (mafia, P2) ha preservato il controllo egemonico sul territorio italiano soffocando ogni richiesta di sovranità e di indipendenza economica, politica e culturale che potesse essere espressa dal nostro Paese.
Tre tappe nere
La restaurazione di quello che Pasolini chiamò il Nuovo fascismo (e che l'ideologo americano Michael Ledeen chiamerà, compiaciuto, Fascismo universale), e cioè di un controllo diretto sull'Italia da parte di questa rete di poteri esteri o derivati, è avvenuta attraverso tre tappe, strategiche ma anche simboliche: l'omicidio di Enrico Mattei nel 1962 (repressione economica), l'omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 (repressione culturale), e l'omicidio di Aldo Moro nel 1978 (repressione politica). Scenografia unitaria di questi tre atti, una grande ed omogenea nuvola di polvere dinamitarda: il Romanzo delle stragi, più comunemente oggi noto come “Strategia della tensione”.
Torniamo ora al particolare dell'omicidio di Pasolini, procedendo con ordine nella dispensa di informazioni fornite dallo scrittore marchigiano in questa vera e propria inchiesta indipendente. Pasolini, secondo la testimonianza dell'amico e regista Sergio Citti, cade vittima di una trappola e la notte tra il primo e il secondo novembre del 1975 si dirige, guidato dal piccolo criminale Pino Pelosi, detto “La Rana”, a pagare un riscatto e riprendere le pellicole rubate del film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il furto delle “pizze” di Salò fu commissionato, secondo le dichiarazioni anonime di un affiliato della Banda della Magliana, Giuseppe C., pubblicate il 3 novembre 2005 sulla cronaca romana de “La Repubblica” (ma anche depositate presso l'avvocato Randazzo, ex legale della famiglia Mattei), ad un gruppo di “pischelli” già “comparsati” in numerosi film del regista, e il cui ritrovo era il “Bar Biliardi” di Via Lanciani, nel quartiere “nero” di Piazza Bologna. Nel luogo deputato alla riconsegna, secondo le rivelazioni dello stesso Pelosi del 7 maggio 2005, Pasolini sarebbe stato invece atteso e ferocemente assassinato da tre siciliani al grido di “fetuso”, “arruso” e “sporco comunista”. Insomma: fascisti, piccoli criminali, Banda della Magliana e tre misteriosi siciliani saliti a Roma per uccidere un intellettuale scomodo: già da questi primi dettagli la vicenda pare assumere un profilo più articolato e complesso di quello con cui frettolosamente si è voluto chiudere il caso giudiziario, per non più riaprirlo (neppure dopo le rivelazioni del 2005).
C'è dell'altro. Dopo l'omicidio di Pasolini qualcuno si introduce nella casa del poeta e, secondo la testimonianza di Guido Mazzon (cugino del poeta), ruba “gioielli e carte di Pier Paolo”. Furto o sottrazione che sia, dal suo ultimo incompiuto romanzo, Petrolio (pubblicato postumo nel 1992 per Einaudi), spariscono sicuramente 78 pagine, tra cui l'intero capitolo Lampi sull'Eni, a cui Pasolini aveva già fatto, nel corpo del testo, riferimento (“ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull'Eni”, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria.”).
Razza padrona
Da alcune bozze del capitolo, che fortunatamente sono state rinvenute, siamo ad ogni modo in grado di ricostruire le intenzioni dello scrittore. Pasolini aveva intenzione di divulgare la verità, ricercata e scoperta, sull'omicidio di Enrico Mattei (romanzato con il nome di Bonocore), e soprattutto sulle responsabilità nel delitto del vice-presidente dell'Eni Eugenio Cefis (romanzato in Troya), che difatti qualche anno dopo l'attentato del 27 ottobre 1962, conquistata la presidenza dell'ente nazionale, neutralizzò le politiche energetiche indipendentiste portate avanti da Mattei riconducendo l'azione dell'Eni all'interno dell'orbita atlantica delle Sette sorelle.
Pasolini aveva ricevuto informazioni scottanti dal matteiano Graziano Verzotto, che il primo febbraio del 1975 era scampato ad un attentato e che nel giugno dello stesso anno aveva deciso di rifugiarsi in Libano (Verzotto in Libano ha paura, “Corriere della Sera”, 22 giugno 1975), e che era stato inoltre la fonte, sempre per quanto riguarda il caso Mattei, del giornalista investigativo Mauro De Mauro, rapito e ucciso dalla mafia nel 1970, e del giudice Pietro Scaglione, assassinato sempre dalla mafia nel 1971. Pasolini stava inoltre consultando il libro, ormai irrintracciabile, Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente (Agenzia Milano informazioni, 1972) di Giorgio Steimetz (misterioso pseudonimo, probabilmente collettivo), e lo stava usando come fonte per Petrolio.
Cappuccio numero uno
Ma chi è Eugenio Cefis? Da un appunto del Sismi del 1983, reperito dal giudice Vincenzo Calia e divulgato nel pamphlet di D'Elia, veniamo a conoscenza che “La loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis, che l'ha gestita sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli”. Da un altro appunto riservato del Sisde, del 17 settembre 1982, apprendiamo invece che “Intensi contatti sarebbero intercorsi in Svizzera, fino al mese di agosto u.s., tra Licio Gelli ed Eugenio Cefis, presidente della Montedison International”.
Insomma: il Potere italiano è un Giano bifronte composto da “petrolio” e “fedeltà atlantica”. Pasolini aveva individuato, e dunque infastidito, quello che aveva già pubblicamente definito il “Nuovo potere”, piduista e filo-atlantico, fascista e pure antifascista (il “sorriso colpevole” di Troya-Cefis), e per questo è stato punito all'interno di un'azione di giustizia sommaria messa in atto dai sicari classici di questo potere, che sono la mafia, il crimine organizzato e la piccola criminalità attigua al neofascismo.
Non solo: Pasolini aveva capito come l'omicidio di Enrico Mattei, nel 1962, rappresentasse solo l'inizio di una lunga guerra non convenzionale volta alla destabilizzazione del territorio italiano e alla limitazione della sovranità nazionale. E aveva soprattutto inteso la piramide del “Nuovo fascismo”, che da Washington stringe l'Italia, passando per i vertici delle massonerie segrete e diramandosi sino alla mafia, al crimine organizzato, alle bande armate, finanche alla criminalità comune delle borgate, in un'unica ragnatela di complotti, connivenze e misteri. Dagli Scritti corsari a Petrolio, passando per Salò, l'ultimo Pasolini è la scoperta delle viscere del Potere italiano.
Cefinvest di casa Previti
Noi oggi potremmo condurre queste prime intuizioni intellettuali ad una conclusione definitiva: nel 1962 è iniziata una guerra di “reconquista” del Potere repubblicano da parte di una oligarchia che fu fascista in quanto anticomunista, e che anticomunista rimase nei panni dell'antifascismo atlantico alleato con la mafia. Questa oligarchia anticomunista si fece strumento degli interessi di controllo geo-politico angloamericano, e da questo sposalizio (di reciproco interesse) deriva il Giano bifronte del “Nuovo potere” italiano, che dopo aver colonizzato culturalmente la nazione (attraverso lo strumento “Fininvest”, voluto dai gelliani e che mutua forse il nome da una società dall'evocativa sigla di “Cefinvest” di Umberto Previti, padre di Cesare), oggi mira a conquistare la Presidenza della Repubblica, terminando così la propria missione storica il cui fine ultimo è lo smantellamento di intere sezioni (considerate troppo socialiste) della Costituzione italiana.
Ecco perché tornare sul mistero della morte e sull'opera di Pier Paolo Pasolini, a trentaquattro anni dal suo omicidio, può ancora essere utile: per comprendere razionalmente la natura antropologica del Potere in atto e per resistere, con sete di Verità e passione corsara, all'interruzione culturale a cui siamo stati costretti.
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