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Saggistica A proposito di Feile La lettera di Pier Paolo Pasolini è diretta al direttore dell’”Unità” o di “Paese sera” - Gentile direttore, Io trovo che la cosa più scandalosa in questo scandalo, è, come sempre in questi casi, si tratti di uomini o donne, il comportamento della stampa italiana. Naturalmente non intendo occuparmi della stampa reazionaria, o addirittura fascista: il suo comportamento è comunque scandaloso. Quello che mi ha colpito, in questa vicenda - nella interpretazione di essa - è il comportamento della stampa democratica, progressista, come si dice. Ho avuto la sorpresa di vedere espressi in questa stampa i sentimenti più bassi, quelli che di solito vengono riferiti al borghese-tipo: ossia l’ignoranza, il conformismo, il provincialismo, la bassezza d’animo. I corsivi di protesta - aggiunti alla cronaca che parlava, già di per sé, niente affatto imparzialmente dei fatti - sia ne «l’Unità» che nel «Paese Sera», mi sono sembrati digiuni di una reale conoscenza e esperienza dei fatti stessi e non privi, spesso, della sordida, cieca ipocrisia del piccolo-borghese provinciale: e proprio nel suo atto più gravemente tipico, quello cioè pretestuale: l’atto di chiedere la testa di qualcuno per avere soddisfazione di offese e ingiustizie più generali, con cui quel qualcuno non ha niente a che fare, se non per circostanze accidentali ed esterne. Come mi spiega, caro direttore, che nel giudicare - con incivile prematurità - questo brutto fatto di cronaca, il linguaggio dei giornali di sinistra e dei giornali fascisti è quasi identico? Badi, si tratta di un fatto molto significativo: il linguaggio usato è infatti la spia dei sentimenti veri, non dei loro pretesti. C’è evidentemente qualcosa che non va. Ora davanti all’affare Feile, fascisti, democristiani e comunisti usano - pubblicamente - lo stesso linguaggio, gli stessi termini, lo stesso lessico, le stesse interiezioni, le stesse clausole oratorie... Vuoi dire che i sentimenti dei fascisti, dei democristiani e dei comunisti davanti a un fatto come questo sono gli stessi, hanno la stessa reazione. Per me la cosa è chiara. C’è un lato della nostra vita quotidiana - la vita sessuale, cioè - che per l’enorme maggioranza dei cittadini resta accantonato, rimosso, represso, tacitato. È l’unico punto della vita su cui tutti sono d’accordo di tacere: così, a causa di questo silenzio, questo problema non soltanto non è risolto, ma non è stato nemmeno impostato. Appartiene Come tutti i fatti che permangono irrazionali, esso vive dentro di noi in una nostra fase infantile, immatura: non portata alla luce della coscienza. E questo vale per tutti: fascisti, democristiani e comunisti. Tutti hanno dentro di loro questo punto irrisolto, o risolto male - dico dal punto di vista scientifico e ideologico - su cui non si conoscono particolari, statistiche, fenomeni: ma che è, semplicemente, come si dice, «tabù», per vecchia tradizione sociale. Per i fascisti e i democristiani - ai quali tutto il mondo si configura irrazionalmente - niente da eccepire, se anche di fronte al sesso si comportano con accettazione o indignazione irrazionale: o con ipocrisia. Ma per un uomo laico, democratico, progressista, che dovrebbe essere abituato a impostare criticamente ogni problema della società, pubblico o privato, a osservare i fatti, sia pure della cronaca, realisticamente, a me, caro direttore, sembra vergognoso che - messo di fronte a un fatto in cui il fenomeno centrale sia l’anormalità sessuale - quest’uomo laico, democratico, progressista, perda la testa, si alteri, usi una terminologia da razzista. Sì, perché la «pretestualità» di cui sono vittime nella stampa gli omosessuali è precisamente del tipo razzista: e un esame linguistico operato sulla comparazione di articoli giornalistici scritti contro i negri, gli ebrei, i teddy boys (del resto a loro volta razzisti) e gli omosessuali, mi darebbe certamente ragione. Si scarica in questo odio precostituito, irrazionale, indeterminato, un’aggressività essa sì anormale: e tanto peggio quando questa aggressività venga usata cinicamente a fini di immediata e cieca lotta politica. Per esempio la pretestualità che, negli articoli sul nostro fatto de «l’Unità», fa degli anormali scempio, oggetto addirittura - se non vado errato - degno di linciaggio, ha chiaramente un fondo politico: l’indignazione con cui viene giudicato questo particolare reato, viene centuplicata Nello stesso numero de «l’Unità» in cui si pubblicava fieramente questa coercizione alla polizia a fare il suo dovere, si dava la notizia di un altro fatto di cronaca, accaduto in Ciociaria, in cui un invertito ha ucciso il suo amico (pare, s’intende: ancora i giudici non si sono pronunciati: non si sa, per esempio, se si trattasse di legittima difesa o no; oppure di difesa da un ricatto, oppure di un caso di infermità ecc.): e allora? Non mi si verrà a dire che il bracciante invertito di Fondi fosse un capitalista, o un personaggio da Dolce vita. In realtà l’inversione non è il prodotto di un cattivo costume, di un eccesso di ricchezza ecc. ecc. come il piccolo-borghese ignorante, ipocrita e provinciale tende a pensare (e, su questo argomento, anche in un comunista è il piccolo-borghese ignorante, ipocrita e provinciale, in lui sepolto, che parla): l’inversione è il prodotto di un «complesso» psicologico che può colpire qualsiasi individuo, nella sua prima infanzia, a qualsiasi classe sociale o a qualsiasi ambiente egli appartenga. Tra le ultime cose che ho saputo in questo campo - tra le mille della mia costante ricerca nel mondo e nel sottomondo romano - è di un prete invertito (orrendamente ricattato), di un poliziotto che opera in una borgata romana, e di un tipografo di sinistra. Povera gente, come vede, caro direttore, di ogni tipo e di ogni rango: che vive nel terrore dello scandalo, del ricatto, della personale angoscia di vivere fuori dalla norma. La furia libellistica e ipocrita scatenata dall’affare Feile stravolge completamente ogni realtà: dà colpa a un piccolo numero di invertiti del fatto che enormi masse di ragazzi (le fotografie del Feile sono, pare, circa tremila) si lascino corrompere. Mi sembra - stando ai fatti - che fosse molto facile, corromperli, questi presunti angeli della borghesia: e allora, la colpa non sarà da attribuire ai genitori, ai maestri, ai giornali, alla società? Se un adolescente compie un atto che tutti considerano così orrendo - e che per lui è tanto facile - lasciandosi convincere dal primo venuto per poche centinaia di lire, significa che questo «primo venuto» è l’ultimo dei colpevoli: o, semplicemente, il reagente che, messo in contatto con l’anima del ragazzo, mette in luce la sua reale, sostanziale, pacifica possibilità a essere corrotto. E questo sì, succede proprio a Roma: a Roma, sede del papato e del cattolicesimo, cosa per cui, all’unisono, si accresce l’indignazione (badi bene) dei fascisti, dei democristiani e dei comunisti! Succede a Roma, proprio perché è la capitale del cattolicesimo. A Milano, città europea, nordica e protestante, questo non succede, o succede in scala infinitamente minore: e là sì, si può parlare di corruzione, in quanto i ragazzi, dal punto di vista cattolico e borghese, sono realmente cattolici e borghesi, e se si decidono a peccare, peccano coscientemente. Sono realmente corrotti, perché passano da uno stato di sincronia col loro mondo a uno stato di diacronia: e infatti si auto-condannano, diventano teddy boys, o qualcosa del genere. Se i tremila ragazzi del Feile potessero essere tutti intervistati e conosciuti, si vedrebbe invece come siano e siano restati tutti dei ragazzi affatto normali: essi infatti vivono in un clima morale caratterizzato dal cinismo, dalla spregiudicatezza, dalla libertà sessuale che è tipico delle città secolarmente sottogovemate: il loro è insieme un atto di vitalità non inibita e di furberia malandrina: che li lascia assolutamente illesi. «Era ora!» si intitola un agghiacciante articoletto de «l’Unità», in cui l’estensore - con puritanesimo che non indietreggerebbe davanti al linciaggio - si rallegra perché la polizia (che giustamente va coi piedi di piombo: dato che sono implicate centinaia di famiglie della piccola borghesia romana, del tutto incolpevoli: e dato che un rapporto omosessuale non è di per sé un reato), ha incriminato un nuovo colpevole; ora, a parte la tragedia che si è abbattuta sulla famiglia di questo nuovo colpevole, su sua moglie, sui suoi figli, sui suoi genitori, non pensa l’articolista de «l’Unità» che a venire incriminato poteva essere un bracciante, e non un ingegnere, un suo diffusore, e non un pariolino? Perché le scrivo questa lettera aperta, caro direttore? Perché mi sembra che il primo esempio di umanità, di civiltà, di rispetto dovrebbe venire dai giornali di sinistra: se anch’essi usano un linguaggio di razzisti, se anch’essi rivelano paurosi vuoti irrazionali, allora a cosa serve la loro lotta? A cosa serve la loro disperata ricerca di una società dove domini la giustizia, ossia la ragione?
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