"Pagine corsare"
Saggistica
UN ARTICOLO STORICO DA "LA REPUBBLICA"
Sta andando in libreria il primo volume dell'epistolario di Pier Paolo Pasolini: ecco in anteprima alcune lettere
la Repubblica, 15 novembre 1986
La casa editrice Einaudi sta per mandare in libreria il primo volume dell' epistolario di Pier Paolo Pasolini: Lettere 1940-1954 - Con una cronologia della vita e delle opere a cura di Nico Naldini, pagg. CXXXII + 738, lire 42.000. Pubblichiamo qui in anteprima alcune lettere
A Franco Farolfi - Parma (Casarsa, settembre 1948)
Caro Franco, tu non sai che sollievo e che specie di felicità mi hai dato con la tua lettera. Sono stato mille volte sul punto di rispondere a quella in cui mi avvertivi della tua malattia e non ne sono stato mai capace, non per viltà ma per egoismo. Ero forse felice, chissà, non ricordo più. Ora che almeno potenzialmente anche tu sei tranquillo e in piena vita, posso trattarti da pari a pari, e risponderti magari nel modo più pazzo. Prima cosa da dirti è questa: sento come non mai la mia amicizia per te, desidero molto vederti. Non sarà, immagino, come l'ultima volta a Bologna, un incontro appesantito dalla responsabilità di doversi ritrovare. Ormai possiamo farci credito a fondo perduto; chissà che ne è di noi (almeno di me... tu hai un' aria molto pura, e, come dirti? dostoiewschiana). Non mi è mai capitato di dimenticare in una tasca centomila lire (per il semplice fatto che non le ho mai possedute: sono un professorino povero in canna), ma immagino che l'amicizia nostra sia un po' come ritrovare per caso in una vecchia tasca centomila lire dimenticate. Che ne facciamo? Spendiamole nel modo più leggero possibile, senza preoccupazioni o nostalgia: vieni tu a trovarmi o dimmi se posso venire io da te. Seconda cosa da dirti... è che io ho finito il periodo della vita in cui si crede di essere saggi per aver superato le crisi o soddisfatto certi terribili bisogni (sessuali) dell' adolescenza e della prima giovinezza. Son disposto a ritentare a rifarmi illusioni e desideri; sono definitivamente un piccolo Villon o un piccolo Rimbaud. In tale stato d'animo, se trovassi un amico, potrei andare anche nel Guatemala o a Parigi. La mia omesessualità è entrata ormai da vari anni nella coscienza e nelle mie abitudini e non è più un Altro dentro di me. Ho dovuto vincerne di scrupoli, di insofferenze e di onestà... ma infine, magari sanguinante e coperto di cicatrici, sono riuscito a sopravvivere salvando capra e cavoli, cioè l'eros e l'onestà. Cerca di capirmi subito e senza troppe riserve; è un capo che devi doppiare senza speranza di poter tornare indietro. Mi accetti? Bene. Son molto diverso dal tuo amico ginnasiale o universitario, vero? Ma forse molto meno di quello che tu creda, anzi forse sono rimasto troppo simile al Pier Paolo di quel tempo (se il mio caso clinico è l'infantilismo).
[...]
Pier Paolo A Silvana Mauri - Milano Roma, 10 febbraio 1950
Carissima Silvana, avevo deciso di riscriverti questa mattina, perché mi ero pentito della mia ultima lettera, un po' troppo piena di disperazione; spero che tu me l'abbia perdonata. Oggi, senza una ragione, ero meno oppresso, avevo qualche linea di meno di sconforto. Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi. Sai, abito vicino al ghetto, a due passi dalla chiesa Cola di Rienzo: ti ricordi? Ho rifatto ormai due o tre volte quel nostro giro del '47, e anche se non ho più ritrovato quel cielo e quell'aria dal tremendo grigio del ghetto al bianco di San Pietro in Montorio; l'ebrea seduta vicina a una catena contro la porta scura; il temporale con l'odore di resina, e poi via Giulia e palazzo Farnese, quel palazzo Farnese che non si ripeterà più, come se la luce dopo il temporale lo avesse scolpito in un velo mi sono stordito e consolato. Anche adesso ho la testa ronzante dei gridi di Campo dei Fiori, mentre spioveva. Ma questo calore che mi invade come un riposo, lo devo alla tua lettera: è qui sporca di rossetto e di crema, del carnevale di Versuta e dei fiori di piazza di Spagna. A quei tempi, nel '47 è cominciata la mia discesa, che è diventata precipizio dopo Lerici: giudicarmi ancora non mi riesce, neanche, come sarebbe facile, giudicarmi male, ma penso che fosse inevitabile. Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l'ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua come tu dici bene che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c'è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch'io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così: e io, come te, non mi rassegno. Da certe tue parole (... tra cose che ti sono costate dolore, se veramente ti sono costate dolore) mi par di capire che anche tu, come molti altri, sospetti dell'estetismo o del compiacimento nel mio caso. Invece ti sbagli, in questo assolutamente. Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c'entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest'ultimo anno mi sono lasciato un po' andare: ma ero affranto, le mie condizioni familiari erano disastrose, mio padre infuriava ed era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odia un mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca di gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l' unico scampo. Ne sono stato punito senza pietà. Ma anche di questo parleremo, oppure te ne scriverò con più calma, ora ho troppe cose da dirti. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell'attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile. Non aveva un nome allora, ma era così forte e irresistibile che dovetti inventarglielo io: fu teta veleta, e te lo scrivo tremando tanto mi fa paura questo terribile nome inventato da un bambino di tre anni innamorato di un ragazzo di tredici, questo nome da feticcio, primordiale, disgustoso e carezzevole. Da allora tutta una storia che ti lascio immaginare, se lo puoi. Verso i diciannove anni, poco prima che noi due ci conoscessimo, ho avuto una crisi che è stata a un pelo di essere identica a quella di Fabio: si è risolta invece in una non gravissima nevrosi, in un esaurimento, in un ossessivo pensiero di suicidio (che spesso mi riprende ancora) e poi nella guarigione. Nel '42 a Bologna, ti ricordi?, ero sano come un pesce, ormai, e completo come un albero. Ma era una floridezza che non doveva durare.
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A Vittorio Sereni - Milano Roma, 7 agosto 1954
Caro Sereni, il nuovo piccolo errore del titolo non mi inquieta: una C maiuscola o minuscola non cambia il senso... Anzi ti dirò che la piccola modificazione di senso che deriva dalla maiuscola non mi dispiace, in quanto Il canto popolare è un titolo più da saggio che Il Canto popolare. Sicché finirei per optare per questa seconda variante dovuta alla tenebrosa ananche tipografica... Quanto al premio Carducci di cui ti ha parlato Bo, è stata una cosa non molto piacevole, che ho accettato solo per l'urgente, odioso bisogno delle 150 mila: lo dico non tanto per aver condiviso il premio col modesto e simpatico Volponi, ma per il terzo, un certo Tedeschi (ex marinettiano, come ha poi precisato Pea) scoperto per degli idioti epigrammi, che hanno entusiasmato quel c... di Bocelli. Bo e Piccioni, si vede, non stavano che debolmente per me. Non ho mai capito perché Bo mi sia così ostile... Intanto, così, sono del tutto compromesse le mie possibilità, del resto assai fioche, di un secondo premio a Viareggio.
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Pier Paolo Pasolini A Gianfranco Contini - Firenze Roma, 17 dicembre 1954
Gentile Contini, è una lettera assurda che Le scrivo: espressa non solo nell' affrancatura (...) Lei può fare una telefonata di raccomandazione a Migliorini? Se può, e vuole (ma subito, perché Migliorini, mi dicono, partirà forse domani stesso da Firenze per Roma) ecco come stanno le cose: Essendo abraso nel fisico già eroico, da tre anni di insegnamento a Ciampino (L. 25.000 mensili, e tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio persi...), sto cercando un altro posto: e so che un posto sta prendendo figura tra il personale dell'Enciclopedia. Lo so per mezzo di un mio amico d' infanzia, Medici, che, appunto con l'appoggio di Migliorini, lavora lì. Perciò mi sono dato da fare, per pietà dei miei e di me stesso: presso l'on. Ferrabino (presidente dell'Enciclopedia) mi sono fatto sostenere da un mio conoscente friulano, il senatore Tessitori, il quale ha avuto da Ferrabino (e me ne ha fatto prendere visione) caldissime assicurazioni. Nel frattempo, un gradino più giù, Petrocchi ha parlato di me al direttore Bosco, che, a sua volta, si è dichiarato disposto ad accettarmi. Occorre la goccia per far traboccare il vaso, il dito che prema il bottone... per esempio una parola di Migliorini, che pare venga a Roma domani appunto per parlare con Ferrabino o Bosco. Ecco tutto. Spero che Lei mi perdoni, e ingerisca senza troppo disgusto questo messaggio. E lo consideri, se non altro, un pretesto per scrivere due righe, una riga, una parola, al Suo sempre più affezionato Pier Paolo Pasolini.
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INVITO ALLA LETTURA:
BRANI DI PIER PAOLO PASOLINI

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