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Saggistica Lettere a Pasolini di Amelia Rosselli
Nel 1962 (altri quattro anni dopo), Amelia Rosselli è impegnata nella pubblicazione in Italia di un gruppo di poesie, che usciranno l'anno successivo sul "Menabò". La sua poesia è sperimentale al modo di Joyce che appassionava Butor da anni, ma nel panorama italiano sembra scesa dalla luna. Nell'aprile 1962 scrive a Pasolini per mandargli controvoglia un testo di "spiegazioni", da lui richiesto: "Noterai che è un poco tecnico, e nello stesso tempo un poco fantastico, un poco folle. Può darsi che non sia affatto il caso di aggiungere spiegazioni ad un libro di versi, la cui ispirazione in fondo potrebbe benissimo rimanere segreta, come del resto è il caso credo in quasi tutte le pubblicazioni. Ma se qualcuno dovesse pensare che il precisare concetti formali e metrici sia utile…". Era il famoso Spazi metrici, difficilissimo testo che aumenta lo sgomento del lettore, e che tratta della sua nuova metrica: chiusa, sperimentale e classica, calibrata sulla misura tempo-spaziale del rigo della macchina da scrivere, con funzione analoga alla battuta nello spartito musicale. Tale complicata chiusura metrica doveva contenere e trasformare la passione neoromantica e femminile di una giovinezza ferita che parlava con un lessico e una sintassi squinternati. Ma in Spazi metrici non c'era una parola sulle deformazioni linguistiche, e tanto meno sulle intenzioni della sua poesia. "Può darsi", "in fondo", "del resto", "quasi tutte", "Ma se qualcuno": uno stile impaziente e impetuoso, e al tempo stesso pieno di esitazioni e speranza, caratterizza le dieci lettere e la cartolina illustrata scritte fra il 1962 e il 1969 (dal Fondo Pasolini al Vieusseux), raccolte e curate con acribia e con una bella postfazione sull'andirivieni editoriale dei testi rosselliani da Stefano Giovannuzzi, in un prezioso libretto edito da San Marco dei Giustiniani. L'interesse e la commozione che suscita questo manipolo di lettere è molto forte. Nel giugno 1962 i problemi della pubblicazione, non che risolti, sembrano aumentati. Prima di tutto, la scelta dei testi: "In effetti le scelte che feci io non furono quelle che fecero Vittorini né altri né te: non saprei dunque giudicare troppo precisamente". Il problema dei testi da "scartare" sulla base di criteri non suoi provoca in lei un'insicurezza mista di passione refoulée, indecisione, estraneità e orgoglio: sofferenza. Ancora più pesanti le "correzioni" linguistiche chieste da Vittorini, alle quali Amelia, forte dell'appoggio di Pasolini (che capì subito la sua grandezza, pur senza capire bene che cosa faceva e come), oppone un rifiuto. "Vittorini mi sembrò così imbarazzato da quella mia 'duttilità' o anarchia linguistica (parole 'fuse', inventate o storpiate, o arcaizzanti), che come tu sai mi chiese di correggere il più possibile le 'stonature'". Marco Forti suggerì allora un compromesso: perché non approntare un glossarietto esplicativo? "I prefer not to", risponde Amelia: "Personalmente preferirei che nel libro intero non venisse incluso questo glossarietto (…) Ma (…) cosa mi consigli? (…) avrei creduto che il linguaggio nella sua violenza restasse assai ovvio nei suoi intenti, e che il come si fossero formate quelle fusioni e scorrettezze e misture fosse lampante". Il glossario svierebbe da "una comprensione immediata e empirica", dice (come Butor per Joyce), e tuttavia, per nostra fortuna, ne prepara due e li manda (in parte li conoscevamo). Vi si coglie dal vivo il processo associativo di cui Stefano Agosti parlò negli anni settanta aprendo la strada a molti ottimi studi rosselliani, oggi sempre più fitti (vedi la recente la pubblicazione da Rubbettino degli atti di un convegno all'Università della Calabria e il "Meridiano" prossimo venturo). Negli straordinari glossarietti ("non da includere nel libro"!) trapela l'impazienza di dover dare spiegazioni su "m'assiedo" = fuso di "m'assido" e "m'insedio" e "assedio", o sul "sardagnolizzante" "turmintussi", e ancora su "i/O" = "io!" + esclamativo "Oh!", o sul rafforzativo "contro del magazziniere" per "contro il magazziniere" perché, dice l'autrice, "la particella rafforza peso e posizione" e toglierla cambierebbe la metrica: "Il contesto è poetico, non prosaico; perciò ogni aggiunta o ritmica o rafforzativa è lecita secondo me (…) lingua rotta e scorretta nacque assieme alla sua forma squadrata". Lampeggia qua e là il senso di questa deformazione: "sacristia" è da "sacrista e sacrestia e sacrificare e sacrilego, fusi in senso insolente"; una certa poesia "può permettersi scorrettezze assai crude, per la violenza del suo contenuto"; mentre "ardizia" riprende arditanza e arditezza sul modello di giustizia e malizia. Il senso è dunque ironico, ardito e insolente, talvolta beffardo soprattutto nei confronti dell'io lirico, grottesco e beffardo con lo scopo precipuo di "togliere romanticismo". Ma "emisfera" per "emisfero": "rende stato di confusione e ignoranza, dell'autore!" (cancellato con matita pesante). Altri temi sono l'insorgere della malattia, che azzera ogni memoria degli ultimi avvenimenti ("Spero tu perdonerai e capirai questa mia stranezza: io stessa ne rimango assai confusa"); la genesi di La libellula, la cui data "di partenza", come diceva Vittorio Sereni per le sue stesse poesie, è il 1958, con la prassi musicale di sviluppo e variazione di un tema: "Brani di poesie utilizzati come spunti, e poi sviluppati, manipolati, in senso del tutto soggettivo (…) un ricordare (…) i poeti che più contribuirono alla mia formazione, almeno nel periodo 1950-58". E ancora la pubblicazione di Serie ospedaliera, il rapido passaggio allo studio di fonologia della Rai (dopo il soggiorno di Darmstadt e come altri compositori della Neue Musik), il Gruppo '63… Ma lasciamo scoprire al lettore il fermento dei toccanti condizionali e congiuntivi di queste lettere, il loro combattuto desiderio di affidamento e la loro ironica, estrema fragilità: "Io per conto mio – scrive Amelia a Davico Bonino nel luglio '67 – devo anzi lottare contro la mia tendenza ad essere autore post-mortem, e vorrei che mi si aiutasse un poco per questo".
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