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Saggistica ... la vitalità dell'Italia? E' finita nel '68 Ho appena finito di vedere un bel documentario, che deve ancora uscire nelle sale e in dvd, di Gianni Borgna, intitolato “Città Aperta. Vita culturale a Roma dal 1943 al 1968”. Realizzato tutto con i filmati dell’Istituto Luce. Ed è un documentario che fa riflettere. Intanto perché si vede una vitalità culturale straordinaria del nostro paese. Una vitalità che comincia subito, in un paese ancora distrutto, nel senso vero della parola. Dal cinema neoralista ai capolavori di Federico Fellini, alla Commedia all’Italiana, dai primissimi premi Strega, agli artisti di via Margutta, alle riviste letterarie. Nel documentario ci sono immagini sorprendenti, si vedono e si sentono parlare uomini, intellettuali di cui non si conosce più la voce, forse neppure il viso, se non in foto piccole e sbiadite in bianco nero: Silvio D’Amico, Alberto Savinio, un giovane Giorgio Bassani, e Carlo Emilio Gadda, con il suo accento milanese. Si vede dipingere negli atelier di allora Giorgio De Chirico, Carlo Levi e Renato Guttuso. C’è il giovane Moravia, con Elsa Morante, e poi con Dacia Maraini, che è poco più che una ragazza. C’è Pier Paolo Pasolini, sull’aereo che lo porterà in Israele (1) a girare “Il Vangelo secondo Matteo”, che dice: «Questo film non concede niente allo spettatore, ma proprio perché non gli concede niente, gli dà tutto».
Eppure, nonostante sia un bellissimo documentario, soprattutto per le molte parti inedite, questo “Città Aperta” va oltre, non so quanto volontariamente o involontariamente, e apre un nodo importante, che non è ancora stato affrontato nel modo più giusto. Il nodo del '68. Il film di Borgna finisce proprio nel 1968, un attimo prima della contestazione, e finisce con una frase di Parise, che racconta con nostalgia di come era Roma un tempo e guarda ai nuovi giovani, alle nuove generazioni: «E così guardandoli, mi viene da pensare a Roma quando la avevo conosciuta io, che era pur sempre quella, ma diversa: forse perché ero io più giovane e mi sembrava meno vecchia. Forse perché, nonostante “La Dolce Vita” che l’aveva così ben ritratta, c’era, anche ne “La Dolce Vita”, un rimasuglio di qualche cosa di agricolo, di laziale, insomma di paesano. Furono, quello che si dice, i migliori anni della nostra vita. Ora, a piazza del Popolo, a via del Babbuino, a piazza di Spagna, avvicinandomi allo studio vedevo e sentivo scomparso del tutto non soltanto quel mondo e perfino quelle persone, come se fossero morte, e sostituite immediatamente da individui di altra specie». L’intuizione di Parise è la stessa di Pasolini. Ed è il dubbio di oggi, quando ci accorgiamo che dal '68 in poi il nostro paese non ha più prodotto, per anni, nulla di culturalmente rilevante, e ha fermato il paese. E la provocazione è questa: il '68 è stato un movimento sostanzialmente reazionario che ha interrotto tutti i processi di modernizzazione della cultura italiana, che erano vivi e straordinari fino al 1967. Nell’arte, nella letteratura, nella musica, nel teatro, tutto era stato fatto e scritto nel decennio che andava dal 1957 al 1967. Poi solo il buio, slogan e nessuna preparazione culturale. Perché il '68 è stato la reazione di una borghesia mediocre e inadeguata, che in nome della fantasia al potere, ha trovato il modo per cancellare ogni forma di competenza e di meritocrazia, a danno, e su questo Pasolini aveva capito tutto, delle classi più meritevoli e talvolta semplicemente più disagiate. ---------
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