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Pasolini nei blog Il PCI ai giovani! di Dottor Benway
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![]() Non mi preme troppo soffermarmi, nello specifico, su questi “versi”, quanto piuttosto su cosa abbia spinto Pasolini a scriverli e ad entrare in modo polemico nella discussione su uno dei fenomeni propulsivi del Sessantotto: il movimento studentesco, appunto. Il punto di partenza della visione pasoliniana era che si stesse realizzando in quei frangenti di storia non una “lotta di classe”, come veniva universalmente decantato, quanto piuttosto una “guerra civile”, e quindi generazionale, tutta interna alla borghesia, attraverso cui i giovani dabbene intendevano così distaccarsi dal coacervo di obbligazioni e moralismi che caratterizzava il mondo dei loro padri, lasciando però intatta la predisposizione culturale borghese di base, che anzi il movimento enfatizzava. Il movimento studentesco, insomma, pareva a Pasolini una forma integrale di borghesia, uno strumento tramite il quale gli studenti, dietro le parole d’ordine della “lotta di classe”, chiedevano in realtà la liberazione da qualsivoglia responsabilità verso il mondo, cioè – in termini pasoliniani – da qualsiasi visione “umanistica”, “religiosa” o “razionale” del mondo. Esso rappresentava, in ultima analisi, uno dei momenti, insieme alla nascita del linguaggio televisivo, attraverso cui la borghesia neocapitalista con quella sua enfasi sul consumo, su una visione tecnicamente laica del mondo, avrebbe raggiunto la piena legittimazione etica, venendo così a coincidere con il “mondo intero”, con la “storia stessa”. Qualsiasi altro angolo di inquadramento dello spazio civile e, ancor prima, umano da allora innanzi sarebbe stato considerato scandaloso, ridicolo, semplicemente retrogrado. I tratti di questa “guerra civile” possono essere sintetizzati in pochi punti. L’odio dei giovani verso qualsiasi cosa rappresentasse il “passato” confuso sempre con la “tradizione”, odio dietro cui Pasolini intravedeva il costituirsi del perfetto tipo di homo consumans sempre pronto a rincorrere l’innovazione, a debellare ogni appesantimento derivante dalle richieste e dai contributi della “memoria” sull’agire presente. La Storia veniva così allontanata dai potenziali ambiti del pensiero, che invece doveva tener conto solo del presente, dell’attuale. Questo garantiva la perfetta omologazione del tipo studentesco alle forme dominanti del presente, che erano essenzialmente le forme piccolo-borghesi; e non sarebbe bastato esibire un contenuto antitetico per scalfire il muro delle suddette forme di comportamento: solo la forza della ragione e non il fatto della partecipazione avrebbe potuto scalfire un simile involucro. Difatti gli studenti continuavano a rappresentare formalmente, razionalmente, esistenzialmente direi, il tipo civile incarnato dai loro padri contro cui pure, a parole, dicevano e pretendevano di combattere. Un primo punto è quindi questa confusione tra “tradizione” e “memoria”. Un secondo è Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l'opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch'è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone. (Saggio sul governo civile, cap. V § 27)L’unica possibilità di discernere tra le diverse sfumature di interpretazione dell’umano è dunque affidata al lavoro, all’opera delle proprie mani. E la stessa istituzione della proprietà poggia per Locke sulla giustificazione di questo nesso. Non so e non penso che Pasolini conoscesse la Arendt, che marxista non era, tuttavia ci sono dei punti di contatto. Anche Pasolini vedeva in questo mito del fare da anteporre a qualsiasi pensiero un sostanziale svuotamento dell’azione responsabile e, in definitiva, un’apologia della società lavorista, produttiva, consumistica, con annessi valori, che ai suoi albori così bene descriveva Locke. L’uomo aliena se stesso nel fare, in un fare che peraltro ha raggiunto una velocizzazione precipitosa laddove viene abbinato alla crescita consumistica, dimenticando la sua stessa “umanità”, il suo modo aspecifico di stare al mondo. Scomparsa della memoria, apologia del fare, riduzione di tutto il complesso umano all’attuale e al presente, cioè al consumo, a quelle “prerogative piccolo-borghesi” che conducono a reclamare diritti e libertà cedendo in cambio il totale asservimento della coscienza alle forme di conformismo sociale imperanti. Infine il mito delle assemblee collettive, dei lavori collettivi, della socializzazione forzata, con cui gli studenti credevano di ricalcare un’organizzazione socialista dello studio e della cultura e che, invece, finiva per diventare un luogo di spersonalizzazione, di perdita del singolare e del pensiero, di creazione di bisogni di gruppo, di mode, del tutto analogo a quelli della civiltà dei consumi, massificata, basata sulla vertigine della crescita: prodotto-consumo, prodotto-consumo, crescita, secondo la quale anche le azioni sarebbero dovute essere pesate con questo metro – omologante – di giudizio. In definitiva Pasolini vede, quindi, nel Sessantotto un riordino dei modi del potere in termini generazionali, che sarebbe da lì a poco diventato, attraverso l’imbarbarimento dei linguaggi televisivo e tecnico-amministrativo, ancora più crudele e impalpabile, e non una sospensione critica dello stesso.
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