La saggistica

"Pagine corsare"
Saggistica

Barbarici deserti e lucide geometrie:
spazi in opposizione nell’opera di Pasolini
di Paolo Lago

da “Due convegni di studio”
Université Stendhal, Grenoble 3. 23-24 maggio 2007 – 3-4 aprile 2008
A cura di Lisa El Ghaoui, Fabrizio Serra Editore, 2009
II. Pays Paysages Passages. La symbolique de l’éspace dans l’œuvre de Pasolini

Come ha osservato Franco Fortini in un saggio del 1959 (e come ha successivamente ribadito lo stesso Pasolini in numerose interviste), l’antitesi e l’opposizione sono due tratti stilistici che contraddistinguono la prima produzione poetica pasoliniana:

L’antitesi è rilevabile a tutti i livelli della sua scrittura. È «antitesi» di posizioni intellettuali e morali verso i massimi temi della passione ideologica contemporanea (Le Ceneri di Gramsci ha come tema, appunto, quella contraddizione), verso l’Italia, il “popolo”, la “ragione”, la “religione”; antitesi di tematica e dunque di un libro contro l’altro; di linguaggio, nazionale e dialettale, anzi pluridialettale; fra struttura sintattica e struttura metrica, come dirò; fino alla sua più frequente figura di linguaggio, quella sottospecie dell’oxymoron, che 
l’antica retorica chiamava sineciosi, e con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari: «il greco meridione... decrepito e increato, sporco e splendido» e al suo più ricorrente stilema espressivo, la correzione aggettivale o avverbiale («da spenta trepidazione», «i cipressi stancamente sconvolti».[1]
Prendendo spunto da queste osservazioni di Fortini si può rilevare come la figura dell’oxymoron, della sineciosi, del ‘costruire per opposizione’ sia una costante strutturale pressoché dell’intera opera di Pasolini, non solo poetica, ma anche romanzesca, teatrale e cinematografica. Tale costante si riflette in maniera profonda anche, appunto, nel cinema, nelle scelte stilistiche legate alla messa in scena dello spazio. Spesso, infatti, nei film pasoliniani, notiamo la tecnica del ‘costruire per opposizione’ (una tecnica sia di carattere scenografico che di montaggio); 
un’opposizione che si palesa di fronte all’occhio dello spettatore in un contrasto di spazi fra loro antitetici.
Possiamo allora iniziare la nostra indagine sugli ‘spazi in opposizione’ da Teorema (1968). In questo film, a essere contrapposti, sono fondamentalmente due luoghi, due ambienti: quello del deserto e quello degli interni della villa dei protagonisti appartenenti all’alta borghesia. 
Fin dalla sigla di testa compare l’immagine del deserto, che poi tornerà in velocissime inserzioni durante l’intera vicenda del film. Le inquadrature iniziali del deserto, una volta conclusasi la sigla di testa, hanno un valore epigrafico; la voce fuori campo recita infatti le parole della Bibbia (tratte da Esodo, 13, 18) che troviamo in epigrafe alla versione letteraria di Teorema: «Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto».[2] Subito dopo assistiamo alle atone inquadrature che precedono l’arrivo dell’Ospite (Terence Stamp); con l’arrivo di 
quest’ultimo, annunciato da un telegramma portato dal messaggero-postino Angiolino (Ninetto Davoli), inizia la vera e propria vicenda del film. Le immagini del deserto, in Teorema, vengono realizzate con le stesse tecniche stilistiche che avevamo già visto nei desolati e brulli deserti di Edipo re (1967): le inquadrature, ‘sporche’, tremolanti, vengono realizzate dall’uso di una macchina a mano portata in spalla dallo stesso regista. Rappresentano, se così si può dire, il‘magma’ (parola molto cara a Pasolini), il caos che si contrappone alle immagini nette e pulite degli interni borghesi e delle vicende della famiglia ‘perturbata’ dall’arrivo dell’Ospite sacro.

Questa diversa tecnica di ripresa che definisce i due spazi in opposizione ha un suo preciso contrappunto in ambito sonoro. Se il deserto è caratterizzato da una voce che, nei suoi vertici estremi, diventa urlo, oppure è annullata in un quasi sacrale suono del vento, gli interni borghesi sono il luogo dove la parola o è azzerata in un geometrico e scontato silenzio che può trasformarsi in un brusio incomprensibile (come, ad esempio, nelle sequenze della festa alla villa relative alla prima apparizione dell’ospite) o assume le tonalità di una scansione netta e quasi ‘tragica’, come durante i monologhi - accompagnati dalle note del Requiem di Mozart - in cui i personaggi borghesi esprimono a parole la perdita del sé. Le allocuzioni dei personaggi assumono in tutto e per tutto una dimensione tragica; nella versione letteraria di Teorema, esse si presentano infatti come delle poesie scritte in corsivo (quasi che il cambiamento di stile grafico voglia segnalare la precisa soggettività di esse, contrapposta all’oggettività da referto che domina il romanzo) e, come è stato giustamente osservato, possono apparire come dei «lacertI di scrittura tragica». [3] L’origine ‘tragica’ di questi monologhi è ravvisabile d’altronde nella frase, relativa alla sua presa di coscienza, che Lucia (nel film Silvana Mangano) pronuncia nella sua allocuzione: «e parlo come nel monologo di una tragedia» [4] e tale frase, per certi aspetti, può avvicinare il personaggio alla Clitemnestra dell’Orestea di Eschilo che Pasolini aveva tradotto nel 1960.

Gli interni e gli esterni della villa della famiglia vengono rappresentati sullo schermo, come già accennato, in immagini nette e ‘pulite’ che esprimono iconicamente la dimensione controllata e rarefatta del logos borghese; il deserto è invece lo spazio del ‘magma’, di un caos in cui il vento soffia incessantemente sollevando nuvole di sabbia che offuscano l’immagine sullo schermo, un luogo che racchiude in sé, come ha notato Gilles Deleuze riguardo al «deserto da apocalisse» del Fellini-Satyricon (1969) di Federico Fellini, contemporaneamente la salvezza e la perdizione. [5] È uno spazio in cui può erompere la dimensione più fisica e autentica del corpo: quest’ultimo, nudo, liberatosi di una sovrastruttura estranea e ‘borghese’ come il vestito, si perde e contemporaneamente si salva nelle immensità del deserto e finalmente può lanciare un urlo che non ha fine e che si estende oltre le «soglie» strutturali del film (e del romanzo). [6

Ma il suono della voce, nello spazio del deserto, non possiede soltanto la scansione magmatica dell’urlo; esso è anche netto, tagliente, preciso, come le parole bibliche che vengono pronunciate all’inizio del film. Mentre scorrono le immagini del deserto, la voce fuori campo recita la già citata frase dell’Esodo. La parola sacrale, pronunciata in uno spazio assoluto come questo, va quasi a coincidere con la fisicità autentica e barbarica del luogo; essa si fa corpo grazie al deserto, il suono della voce erompe allora fortemente anche come corpo, come immagine fisica. A questo proposito si possono ricordare anche le parole pronunciate dal personaggio di Cristo (Enrique Irazoqui) ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), durante il serrato confronto col Diavolo nel deserto: anche in questo caso si può affermare che la parola ‘sacra’ pronunciata da Cristo, grazie allo spazio che lo circonda, diventa corpo, diventa essa stessa l’immagine desertica che sovrasta il momento del dialogo fra i due. Anche lo stilita Simón (Claudio Brook), in un film quasi contemporaneo del Vangelo, Simón del deserto (Simón del desierto, 1965, di Luis Buñuel), come il Cristo di Pasolini, pronuncia le sue parole sacre e si confronta col Diavolo in lande brulle e desertiche: anche nel film del regista spagnolo la parola si fa corpo grazie all’ambientazione e lo stesso corpo del personaggio diviene quasi deserto anch’esso, labile figura in bilico fra terra e cielo. E anche in Simón del deserto si possono notare due spazi in netta contrapposizione fra di loro: i ‘barbarici deserti’ dove vive il protagonista entrano in contrasto con le razionali geometrie della metropoli contemporanea che, ex abrupto, compare nelle sequenze finali. Al silenzio e al sibilo del vento fa da contrappunto il rombo di un aereo, il caos metropolitano e la vivacissima musica che risuona nel locale dove alla fine si ritrovano Simón e la ragazza-diavolo (Silvia Pinal) che precedentemente cercava di tentarlo.

In Porcile (1969) la contrapposizione di spazi assume un valore più pregnante rispetto a Teorema. Fin dall’inizio, in fatti, essa è sottolineata da un montaggio alternato che affianca e mette in opposizione le lande desertiche di un imprecisato Medioevo in cui si muovono i due personaggi antropofagi e ‘barbarici’ interpretati da Pierre Clementi e Franco Citti con la geometria razionale degli esterni e degli interni della villa di Godesberg. Come è stato osservato, «nella perfetta efficacia del montaggio parallelo-analogico delle due vicende» [7] vengono presentate due situazioni opposte: «una del tutto priva di parole, l’altra piena di farfugliamenti e sofisticati birignao da marionette del potere». [8] Il montaggio alternato, qui, ha una evidente funzione oppositiva: creare un netto contrasto fra il deserto in cui agiscono i due personaggi ‘barbari’, [9] consegnati ad un silenzio rituale in cui possono essere scandite solo misteriose parole connotate dall’alone del sacro, [10] e le campagne tedesche della villa di Godesberg, le lucide geometrie erette dalla nuova borghesia industriale degli anni Sessanta in cui i personaggi si esprimono appunto come tante marionette. Quest’ultima connotazione emerge soprattutto durante il lungo piano-sequenza che segue Julian (Jean-Pierre Léaud) e Ida (Anne Wiazemsky) nella loro passeggiata in giardino: le parole che i due giovani si scambiano perdono il loro significato per diventare puri suoni, parole cantate e rutilanti che riflettono la vacua consistenza delle strutture geometriche della villa del padre di Julian, Herr Klotz (Alberto Lionello). Lo spazio geometrico della villa è perciò connotato non più da una parola sacrale, come poteva essere quella ‘biblica’ che contraddistingueva il deserto di Teorema o quella pronunciata da Cristo nelle lande desolate di Il Vangelo secondo Matteo, bensì da una parola ‘geometrizzata’ essa stessa, una parola che diviene carnefice, quella che possiede il nuovo industriale borghese e anche, metaforicamente, quella del potere dei nuovi consumi, attraverso il linguaggio della televisione e della pubblicità. [11]

La contrapposizione fra i due spazi riveste anche le loro connotazioni, se così si può dire, architettoniche. Nell’ambientazione del deserto vediamo abitazioni arcaiche, cittadelle isolate costruite con mattoni dai colori anch’essi ‘brulli’ e ‘arcaici’ (marroni più o meno scuri) che ricordano le roccaforti che si ergono nei deserti di Edipo re (1967) e Medea (1970). L’altro spazio, invece, come ricordato più volte, è connotato da esterni ed interni rigorosamente geometrici: una villa in stile neoclassico e giardino all’italiana; interni enormi e spigolosi, dove la stessa disposizione dei personaggi (come, ad esempio, nelle inquadrature in cui vediamo Julian a letto attorniato da Ida e dai suoi genitori) persegue una rigida geometrizzazione dello spazio. Da una parte, l’antico, il ‘barbarico’, le architetture che la nuova società dei consumi si propone di abbattere e di sostituire con i suoi palazzoni a forma di cubo, dall’altra i fasti architettonici che riecheggiano falsamente un’ambientazione antica, eretti da una borghesia industriale legata con uno stretto filo rosso al nazismo e alle sue atrocità (come svela il personaggio di Herdhitze, interpretato da Ugo Tognazzi, il signor Klotz altri non è che un ex criminale nazista sotto mentite spoglie). A questo proposito, si può ricordare anche il documentario La forma della città (1974) in cui vediamo lo stesso Pasolini parlare e muoversi fra due ambienti opposti. Da una parte, lo vediamo nella medievale città di Orte, dove lo scempio paesaggistico degli anni Sessanta ha costruito palazzi cubici a fianco delle antiche case, dall’altra nella fascista Sabaudia, costruita secondo un rigoroso ordo geometrizzato. [12] Successivamente, Pasolini si sposta sulla riva del mare di Sabaudia - in un paesaggio quasi ammiccante al deserto - per lanciare altre parole accusatorie al potere dei nuovi consumi. Si può pensare quindi anche a Petrolio: il culmine dell’infernale Visione del Merda, ricalcata sulla struttura della catabasi dantesca, sarà una città a forma di croce uncinata, a rimarcare di nuovo la corrispondenza fra potere neocapitalistico e atrocità naziste (la stessa corrispondenza che viene attuata in Salò o le centoventi giornate di Sodoma, 1975: qui il parallelismo è fra il potere dei nuovi consumi e le atrocità messe in atto dai repubblichini di Salò).

Anche i due film pasoliniani ispirati alle tragedie antiche, i già citati Edipo re e Medea, offrono la rappresentazione di spazi contrapposti, costruiti quasi per ossimoro. Nel primo assistiamo ad un brusco stacco fra la Grecia antica ricostruita in Africa, dove si svolgono tutte le vicende del film (eccetto il prologo iniziale, riecheggiante il materno Friuli) e la Bologna della fine degli anni Sessanta, dove Edipo (Franco Citti) si trasforma in un mendico cieco accompagnato 
dall’anghelos Ninetto Davoli. L’opposizione fra i deserti africani ammiccanti alla Grecia antica e la città contemporanea solcata dalle automobili, una città che gradatamente si perde in una periferia industriale, vuole anch’essa sottolineare l’opposizione fra mondo arcaico e contadino da una parte e mondo borghese e neocapitalista dall’altra. Vediamo ancora quanto Pasolini afferma nella già citata intervista a Jean Duflot: «Ho girato il prologo in Lombardia, per evocare la mia infanzia in Friuli, dove mio padre era ufficiale, e il finale, o meglio il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho iniziato a scrivere poesie; è la città dove mi sono trovato naturalmente integrato nella società borghese». [13]

In Medea gli stessi deserti di una Grecia antica ricostruita stavolta in Siria e in Turchia entrano in contrasto con lo spazio razionale della Piazza dei Miracoli di Pisa, ‘riambientato’, se così si può dire, all’interno dei palazzi regali di Corinto, quest’ultima rappresentata come una cittadella arroccata in mezzo a lande desertiche. La rappresentazione iconica della Piazza dei Miracoli vuole forse alludere ad un periodo in cui cominciava a svilupparsi e ad assumere potere la moderna borghesia commerciale. Nello spazio ‘borghese’ e razionalizzato della Piazza vediamo un Giasone (Giuseppe Gentile) ormai dimentico della barbara Medea (Maria Callas). I due personaggi, infatti, nell’ottica pasoliniana, sono la metafora di due mondi opposti; Medea rappresenta il mondo sacro e arcaico, Giasone quello ‘desacralizzato’ del potere dei consumi: «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il ‘tecnico’ abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo». [14]
Quindi, nello spazio razionale della Piazza dei Miracoli, assistiamo a uno sdoppiamento del Centauro (Laurent Terzieff) che si prendeva cura di Giasone bambino: il vecchio Centauro, quello sacro dell’infanzia e dell’adolescenza, non può parlare, mentre la forza del logos, di una parola carnefice, è affidata solamente al nuovo Centauro, quello desacralizzato dell’età adulta.

Anche in Petrolio incontriamo frequentemente la rappresentazione di spazi antitetici, costruiti in modo ossimorico. Spesso sono gli ‘esterni’ dei ‘pratoni’ di periferia dove si svolgono numerose vicende del romanzo a entrare in contrasto con gli interni borghesi o altoborghesi frequentati dal protagonista Carlo. [15] I ‘pratoni’ delle periferie romane vengono mitizzati e resi ‘barbari’, non troppo lontani dai deserti arcaici di film come Edipo re e Medea. Tanto è vero che la Roma che si vede in lontananza, con le sue borgate, viene descritta come «un’antica città»; così leggiamo nell’Appunto 62: «Oltre la linea dei fuochi delle puttane, che si perdevano radi verso il lontano quartiere nuovo, lucente sulla caligine, come la muraglia merlata di una antica città, le gobbe del prato cessavano, e il terreno si faceva più piano». [16] Gli stessi ragazzi proletari e sottoproletari che si incontrano con Carlo-donna sul «pratone della Casilina» (Appunto 55) vengono descritti come «Dei degli Inferi», come «Spiriti o Geni protettori, divini». [17] Nel «pratone» dell’Appunto 62, inoltre, dove avviene l’incontro erotico di Carlo-donna con Carmelo, Pasolini progettava l’inserimento dei versi dell’inizio dell’Orestea di Eschilo, che lui stesso aveva tradotto nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman. E gli stessi «fuochi delle puttane» che sono accesi sui prati di periferia vengono assimilati, mediante questo progettato inserimento, ai fuochi di segnalazione avvistati dall’araldo all’inizio dell’Agamennone di Eschilo:

Sparivano, quei fuochi, uno dietro l’altro, a intervalli quasi regolari, coi loro fiotti di fumo nero, lungo la curva della strada, verso il quartiere che giganteggiava lontano con la sua cupola che pareva di metallo. Parevano fuochi accesi da sentinelle, quieti e antichi segnali che annunciavano i fatti quotidiani e normali della sera inoltrata, inconsapevoli della loro tragicità:
(versi dell’inizio dell’Orestiade) [18]
Una situazione ‘bassa’ come un incontro erotico avvenuto su un prato di periferia viene ‘innalzata’ come un avvenimento tragico tramite un rimando diretto ed esplicito alla tragedia antica. Ancora una volta, lo spazio del deserto è lo spazio non solo del sacro, ma anche di situazioni talmente lontane da quelle che avvengono nelle ambientazioni ‘controllate’ e geometriche del potere borghese, che possono assurgere ad una dignità tragica nel vero senso della parola, cioè assimilabili a momenti della tragedia antica.

Invece, fra gli ‘interni’ descritti in Petrolio vi sono quelli del prestigioso locale ‘Toulà’, frequentato da onorevoli e da personaggi dell’alta borghesia; un luogo ‘antisacrale’ per eccellenza, un luogo dove si cospirano le trame del potere democristiano degli anni Sessanta che vedono coinvolti Stato e Vaticano. [19] Ma vi sono anche quelli in cui si svolge la «Festa della Repubblica» descritta nell’appunto 97, in cui gli alti esponenti del potere politico ed economico vengono messi in scena in un’elencatio che riprende il topos epico della parata e della descrizione degli eserciti e degli eroi. Possiamo anche ricordare i saloni della villa di Giulia Miceli a Torino, in cui si svolge la «Festa antifascista» che occupa gli appunti dal 129 al 129 b, modellata sulla festa di Julia Michailovna (a cui allude lo stesso nome Giulia Miceli) dei Demoni di Dostoevskij. Un altro ‘interno’ di Petrolio in cui avvengono cospirazioni e trame fra diversi e contrastanti poteri.

Inoltre, in Petrolio, vi è un vero e proprio momento liminale, una vera e propria ‘soglia’ spazio-temporale che permette una sorta di ibridazione fra questi due ambienti: le città con i loro interni alto-borghesi e le periferie con i loro ‘pratoni’ brulli e sconfinati. Si tratta di uno squarcio nel muro della stazione di Torino, dopo l’esplosione di una bomba (un momento terribilmente profetico - che leggiamo nell’Appunto 111 «I Godoari (seguito)» - di Petrolio che sembra anticipare la strage di Bologna del 1980). [20] Attraverso questo squarcio Carlo assiste al disastro provocato dallo scoppio della bomba: solo l’edificio della stazione è rimasto in piedi, come un rudere, e tutt’intorno la città è ridotta a un deserto. Questo deserto, mentre il personaggio lo percorre, gradatamente cambia aspetto e si trasforma in prati, boschi e altre ambientazioni rappresentate sulla pagina seguendo quasi il topos del locus amoenus. La città, regno dei nuovi palazzi industriali nonché dei ‘luoghi del potere’ si trasforma in deserto, in spazio ‘altro’ che progressivamente muta aspetto: «Il deserto davanti a lui era una specie di brughiera verde, con qualche argine qua e là e qualche boschetto ceduo, fatta di magri ontani, e di spelacchiate gaggie. L’erba era cresciuta, stenta e selvaggia dappertutto, non c’erano tracce di strade o sentieri». [21]

Ma ci sono due appunti di Petrolio, il 51a, «Bullicame» e il 103c «Il prato sotto la torre di Pisa», che esprimono specularmente un’altra opposizione non solo di ambienti, ma anche - si potrebbe dire - di ‘tipi antropologici’ legati a tali ambienti. Da una parte, abbiamo ancora un prato di periferia, quello dell’Acqua Bullicante, frequentato da ragazzi proletari e sottoproletari; dall’altra, ancora una volta, come in Medea, la Piazza dei Miracoli di Pisa, a rappresentare un luogo di ritrovo dei giovani borghesi, gli studenti. Data la loro brevità (poiché sono rimasti ad un livello alquanto schematico), è opportuno leggerli entrambi integralmente. L’appunto 51a così suona:

L’acqua Bullicante col pratone notturno com’era alla fine degli Anni Cinquanta, rima¬sta uguale ancora per un anno o due. Sua descrizione assicurando (giurando) sulla sua autenticità. L’infinità dei tipi e degli episodi della bolgia notturna. Passaggio attraverso essi di Carlo che non osa che osservare. Poi Carlo prende il tram e arriva alla Stazione Termini, lì, come ad aspettarlo, è Tonino. [22]
Così il 103c:
(È un capitolo analogo al capitolo 51a, Bullicame. Carlo passa in rassegna i giovani studenti che oziano distesi ecc. sul grande prato. Loro caratteristiche fisiche e morali, totalmente leggibili, totalmente diverse da quelle dei giovani del Bullicame. C’è il salto dell’epoca, ma ancora ciò non è avvenuto nella coscienza di Carlo - mentre  l’altro  Carlo  l’ha  già  perfettamente  sperimentato ecc. - perciò egli guarda come in un incubo doloroso di impotenza da parte sua e loro ecc.) [23]
Due prati, uguali e contrari come un’immagine allo specchio: quello romano di periferia, frequentato da una folla ancora ‘pura’, ancora non corrotta, nell’ottica pasoliniana, dal potere degradante dei nuovi consumi e delle pubblicità televisive; quello dominato dalle architetture levigate e perfette dei monumenti pisani, dove si aggira invece una folla che, come Giasone nel colloquio con i due Centauri, ha perso, nella sua età ormai ‘adulta’ e conformista, ogni innocenza e ogni arcaica dolcezza. Quasi che in questi due affreschi Pasolini abbia voluto rappresentare iconicamente, attraverso una forza rappresentativa quasi cinematografica che ritroviamo sovente in Petrolio (un’opera che, tra l’altro, avrebbe dovuto essere corredata di numerose fotografie) quella stessa «mutazione antropologica» di cui parla negli Scritti corsari
«L’omologazione “culturale” che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista». [24

Due spazi che rappresentano ancora una volta una profonda antitesi, quella stessa di cui parlava Fortini, all’interno dell’opera pasoliniana; due spazi che divengono tempo, due momenti opposti e inconciliabili: da una parte l’Italia preindustriale, ancora profondamente popolare, 
dall’altra quella che gradatamente precipita nell’inferno dei nuovi consumi, come nella discesa infernale del Merda. I ‘barbarici deserti’ e le ‘lucide geometrie’ sono divenuti due diversi momenti della coscienza di un popolo, di una nazione; una coscienza che, secondo quanto scrive Pasolini in questa metà degli anni Settanta, precipita lentamente nel baratro dell’omologazione culturale, un baratro infernale.
 

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NOTE
[1] FRANCO FORTINI, Le poesie italiane di questi anni, «Il menabò» 2 (1959), poi in IDEM, Saggi italiani, Bari, De Donato, 1959, adesso, col titolo La contraddizione, in IDEM, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, pp. 21-22.
[2] Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti, II, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p.893.
[3] STEFANO CASI, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005, p. 208. Cfr. anche GIAN CARLO FERRETTI, Pasolini: l’universo orrendo, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 65, dove le poesie in questione vengono definite come «autonomi monologhi da tragedia».
[4] Pasolini. Romanzi e racconti, II, cit., p. 975.
[5] Cfr. GILLES DELEUZE, L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. it., Milano, Ubulibri, 1989, pp. 105-106:
«L’ordinamento del cristallo è bipolare, o meglio a due facce. Circondando il germe, a volte gli comunica
un’accelerazione, una precipitazione, a volte una discontinuità, una frammentazione che vanno a formare la faccia opaca del cristallo; a volte gli conferisce una limpidezza che è quasi la prova dell’eterno. Sudi una faccia vi sarà scritto “Salvi!” e sull’altra “Perduti!”, in un paesaggio da apocalisse come il deserto del Fellini-Satyricon».
[6] Per il concetto di «soglie» strutturali di un’opera letteraria (ma esso è estendibile anche ad un’opera filmica) cfr. GÉRARD GENETTE, Soglie. I dintorni del testo, trad. it., Torino, Einaudi, 1989. Il romanzo ‘non finisce’ (con una poesia pronunciata dal padre Paolo) in questo modo: «Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa / questo mio urlo voglia significare, / esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine. FINE» (Pasolini. Romanzi e racconti II, cit., p. 1056). Nella sequenza finale del film, invece, l’urlo continuato lanciato dallo stesso personaggio, Paolo (Massimo Girotti), viene interrotto bruscamente dalla scomparsa delle immagini dopo una fugace apparizione sullo schermo della scritta «FINE».
[7] SERAFINO MURRI, Pier Paolo Pasolini, Milano, Il Castoro Cinema, 2003 (I, 1994), p. 114.
[8] Ivi, p. 107.
[9] Si leggano queste dichiarazioni di Pasolini in una intervista con Jean Duflot, a proposito della ‘barbarie’ dei personaggi di Porcile: «Ma la barbarie primitiva ha qualcosa di puro, di buono; la ferocia vi compare soltanto in casi eccezionali. Comunque, più primitiva è, meno è “interessata”, calcolata, aggressiva, terroristica... » (PIER PAOLO PASOLINI, Les dernières paroles d’un impie, Paris, Belfond, 1981, in versione italiana IDEM, Il sogno del Centauro, in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, p. 1487).
[10] Il personaggio di Clementi dice soltanto, mentre viene condotto al supplizio dopo la cattura: «Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana e tremo di gioia». Pasolini confeziona per Pierre Clementi un personaggio dalle connotazioni misteriose e quasi demoniche, che egli definisce come una sorta di «intellettuale ribelle», «fuorilegge» (ivi, p. 1488). Si può ricordare che l’attore interpreta due personaggi ‘demonici’ e portatori del sacro in due film contemporanei di Porcile: I cannibali (1969, di Liliana Cavani) in cui egli riveste i panni di una sorta di nuovo Messia che giunge a portare scompiglio in una immaginaria società repressiva (ricostruita nella Milano contemporanea) e La via lattea (La voie lactée, 1969, di Luis Buñuel), dove interpreta invece un vero e proprio demone. È invece il personaggio di Franco Citti che Pasolini considera come un vero ‘barbaro’ (secondo quel senso positivo che si è visto sopra), senza la connotazione intellettuale che ha Clementi: «Il vero “barbaro” è bensì il luogotenente di Clementi, Franco Citti: un innocente, spinto dalla fame a mangiare carne umana, e che scopre dinanzi al tribunale di occupazione la grazia delle lacrime», ibidem).
[11] Cfr. ROLAND BARTHES, L’albero del crimine, «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1967, p. 39: «Il carnefice è colui che parla, che dispone del linguaggio nella sua interezza; l’oggetto è colui che tace, che resta separato, in virtù di una deficienza, più assoluta di tutti i supplizi erotici, di qualsiasi accesso al linguaggio».
[12] Ricordiamo che a Sabaudia è stato girato Storia di Piera (1983, di Marco Ferreri), anch’esso un film che sottolinea una certa opposizione di ambienti: da una parte, la geometrica Sabaudia, solcata da Piera (Isabelle Huppert) e dalla madre Eugenia (Hanna Schygulla) in bicicletta, dall’altra la riva del mare, in un paesaggio desertico e astorico, che assume quasi connotazioni barbariche e ’sacre’ nell’apparizione della figura del selvaggio alle due donne; cfr. ALBERTO SCANDOLA, Marco Ferreri, Milano, Il Castoro Cinema, 2004, p. 142: «Al pari del centauro di Pasolini (cfr. Medea), il selvaggio nudo sorpreso a bagnarsi riporta le due donne nell’età dell’oro dove tutto è santo, dove la natura non ha nulla di naturale».
[13] Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1501.
[14] Ivi, p. 1504.
[15] Ho già accennato a questo tipo di opposizione di spazi in Petrolio in PAOLO LAGO, Petrolio e l’antico: la presenta e l’influsso delle letterature classiche nel romanzo incompiuto di Pier Paolo Pasolini, in Progetto Petrolio, a cura di P. Salerno, Bologna, Clueb, 2006, p. 64.
[16] Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti, II, cit., p. 1504.
[17] Ivi, p. 1437.
[18] Ivi, p. 1517.
[19] Cfr. Ivi, p. 1491 (Appunto 61. Frequentazione del Toulà): «L’on. Tortora può anche, perduto ogni ritegno, per l’eccesso di quella sicurezza, tirare fuori la busta gialla che viene dal Vaticano, magari direttamente da persona vicina al Papa, a nome (non detto) del Papa stesso, in cui si congratula con gli alti dirigenti democristiani per la loro coraggiosa lotta in difesa della moralità, mettiamo, e per la repressione della dilagante libertà sessuale, ecc.».
[20] Si veda, in proposito, quanto scrive Fortini in FRANCO F0RTINI, Attraverso Pasolini, cit., p. 247 (nella sezione intitolata Petrolio, in origine un articolo apparso su «Il Sole 24 Ore» dell’8 novembre 1992, dal titolo Pasolini sul rogo di sé).
[21] Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti, II, cit., p. 1749.
[22] Ivi, p. 1393.
[23] Ivi, p. 1736.
[24] PIER PAOLO PASOLINI, Studio sulla rivoluzjone antropologica in Italia, «Corriere della Sera», 10 giugno 1974, ora in Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 310.

UN PARTICOLARE RINGRAZIAMENTO A PAOLO LAGO
PER L'AUTORIZZAZIONE ALLA PUBBLICAZIONE IN "PAGINE CORSARE"

 

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Barbarici deserti e lucide geometrie: spazi in opposizione nell’opera di Pasolini, di Paolo Lago

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