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Saggistica Il primo marzo di quarant'anni fa. A Roma, all’inizio di febbraio, vennero occupate Lettere e Architettura, e gli sgomberi, i tafferugli, le ri-occupazioni si succedettero per tutto il mese. La facoltà di Architettura si trova a Valle Giulia, una zona di Roma al di fuori della cittadella universitaria, ai margini di Villa Borghese: l’immenso parco e la grande scalinata di accesso la rendevano difficile da controllare con le normali tecniche di mantenimento dell’ordine pubblico. Il 29 febbraio il braccio di ferro tra gli occupanti e il rettore D’Avack parve risolversi a favore dell’istituzione, malgrado alcuni docenti avessero avviato dialogo e sperimentazione: manganellate, sgombero e presidio da parte delle forze di Ps.
Qui, nella notte e nelle prime ore del mattino del 1° marzo si riunì qualche migliaio di studenti: comunisti di varia ispirazione, ma anche cattolici, repubblicani, socialisti, liberali e alcuni di destra, si avviarono verso Valle Giulia per liberare la facoltà. Fu la «battaglia di Valle Giulia»: gli scontri si succedettero per ore, con centinaia di feriti e diversi automezzi della polizia dati alle fiamme. A metà giugno, quando gli avvenimenti nel resto d’Europa e del mondo avevano consolidato una fisionomia comune nel segno della «contestazione», l’Espresso pubblicò un componimento di Pier Paolo Pasolini, «Il Pci ai giovani!», dando maggiore diffusione a quelli che il numero di maggio della rivista Nuovi Argomenti aveva già stampato come ‘Appunti in versi per una poesia in prosa’, rivolti agli studenti. «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. / (…) Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. (…) / A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione) eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte / del torto) erano i poveri.Quegli ‘appunti’ ebbero un’eco immediata e vivacissima. Come commenta Angela Molteni sul Meridiano dedicato ai saggi sulla letteratura di Pasolini, i versi autorizzarono una «plateale, delirante e sgangherata strumentalizzazione delle parole del poeta da parte della destra». Pasolini tornò in seguito più volte su quello scritto, e già nella tavola rotonda che l’Espresso aveva organizzato per lo stesso numero del 16 giugno con Vittorio Foa, Claudio Petruccioli, Nello Ajello e lo stesso scrittore: «Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti 'sdoppiati' cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire una 'captatio malevolentiae': le virgolette sono perciò quelle della provocazione». Già nel 1960, di fronte a una rinnovata offensiva neofascista, Pasolini aveva parlato di poliziotti: li aveva descritti (ne «La croce uncinata») mentre sorvegliavano la sinagoga di Roma: «e colgo una breve luce, negli occhi / umiliati dal loro goffo sonno di giovinotti: / una accecata stanchezza che vede nemici / in ognuno, un veleno di dolori antichi, / un odio di servi: restano indietro, / soli come lo scirocco che vortica tra le pietre.»Quell’aria pesante sarebbe sfociata allora nelle manifestazioni contro il governo Tambroni, represse nel sangue di una decina di vittime, fra le quali i «morti di Reggio Emilia». Ma nel «frammento di lotta di classe» di Valle Giulia c’era in gioco una nuova soggettività, quella studentesca, quella dei giovani in quanto classe sociale, e la saldatura tra quella richiesta di cambiamento radicale e le rivendicazioni operaie. Una partita che oggi sappiamo far parte del nodo irrisolto dei momenti più tragici, per lo più rimossi, della storia repubblicana: l’intreccio fra la violenza, il monopolio della stessa da parte dello Stato e la legalità. Una lunga sequenza di avvenimenti che va dalla strage di piazza Fontana ai fatti di Genova del 2001. La ‘poesia di Valle Giulia’ è un gesto, forse il più eclatante, di un modo distintivo dell’opera di Pasolini: la voluta incapacità di distinguere tra poetica e politica. La loro fusione - e spesso la confusione - testimoniata dal proprio corpo, eletto spartiacque fra mito e poesia. Come la sua morte avrebbe letteralmente mostrato sette anni dopo.
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