"Pagine corsare"
Saggistica
Le 120 giornate. Pasolini ai tempi del Cav.
Intervista a Fabián Cevallos, fotografo dell’ultimo film del regista: “Oggi manca uno come lui, che parlava alto e forte di tutto ciò che non si diceva”
di Giovanna Gueci
“il Fatto Quotidiano”, 1 ottobre 2009

Quattro potenti ontologi e perciò arbitrari - dichiara nel 1975 Pier Paolo Pasolini a proposito
del suo Salò o le 120 giornate di Sodoma, un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore riducono a cose delle vittime umili. In Salò la politica, la finanza, la giustizia e la religione celebrano l’anarchia del potere e la sua decadenza. Quel film è un documento poetico e creativo - la rappresentazione del potere repubblichino - che si lascia guardare oggi come la più tragica delle fotografie: tragica perché attuale. Perché l’impunità, l’arroganza, la mistificazione dei fatti da parte della classe politica è cronaca quotidiana. E l’incontro con Fabián Cevallos, il fotografo del set di Salò, è a Roma alla Casa del Cinema, nell’Italia
dell’Avvenire e del Giornale, di Boffo ex-direttore, di Feltri neo-direttore, dì Fini Presidente della Camera un po’ troppo “compagno”, giorni durante i quali in un Paese smemorato e assopito volano parole grosse: comunicazione, immagine, dittatura, censura. Sono i giorni della questione femminile anche per il presidente Napolitano (“troppa violenza contro le donne”) e per il ministro Carfagna (“i nostri valori: famiglia, ordine e disciplina”), delle trenta ragazze in diciotto feste per il premier Berlusconi (secondo l’inchiesta dl Bari). Cevallos fotografò Salò. Osservò da vicino quel sesso metafora del potere. Nato a nord di Quito, immigrato e clandestino in Francia durante la guerra d’Algeria - un passato da attore - nell’estate del 1975 era negli studi di Cinecittà. Ha fotografato, meglio testimoniato, oltre 170 film: Visconti, Fellini, Scola, Bertolucci, Comencini, Ferrero, Antonioni, Zeffirelli, Bellocchio, Tornatore. Ed anche Wenders, Coppola, Edwards, Polanski, Shloendorff, Ivory, Kusturica, Lelouch, Malle, Rappeneau, Saura, Minghella, Moretti. Ma il cambiamento autentico - quello che definisce uno shock vero e proprio - è avvenuto con Pasolini, proprio sul set di Salò.
Cevallos, lei ha sempre avuto ritrosia a parlarne...
“È vero. Sul set di Salò sono stato all’inferno. Ma quello che mi ha sempre trattenuto, anche nel mostrare le fotografie di quell’incredibile lavoro, è stato il rispetto per la fiducia che Pasolini volle darmi. Rispetto che per me non è mai venuto meno, neanche dopo la sua morte”.
Cosa è stato quel film? E cosa è oggi?
“È stato la mia università. Dovrebbe essere una lezione per tutti, ora più che mai, se solo volessimo vedere e ascoltare. La rappresentazione che oggi viene fatta attraverso il cinema, la tv e l’immagine in generale non è che un’apparenza promozionale e auto promozionale dell’ego. Niente altro. E la massa media è vittima del potere sottile, della comunicazione ipocrita, di tutto ciò che annuncia solamente, che è comodo e in fondo non disturba nessuno”.
Che effetto ha avuto partecipare così da vicino all’ultima fatica di Pasolini?
“Cambiò il modo di essere e cambiò radicalmente il mio comportamento verso gli individui che fotografavo. Pasolini parlava poco, ma diceva spesso: «Rispetto, tolleranza, verità». Lui sosteneva che il pensiero cambia a seconda della propria azione: «Se la tua azione è sbagliata - diceva - significa che anche il tuo pensiero è sbagliato». E solo l’azione del suo pensiero ha fatto di lui quello che è rimasto in Salò. L’ultimo film è il suo patrimonio da guardare fotogramma per fotogramma. Ogni inquadratura contiene una risposta”.
Salò fu un set praticamente inaccessibile. Come riuscì a diventarne il fotografo?
“Conoscevo Pasolini come scrittore e poeta. Sapevo del suo Vangelo secondo Matteo. In Francia era conosciuto come un intellettuale rivoluzionario. Per me era una specie di Che Guevara. Andai a Cinecittà per incontrarlo, ma non ci riuscii. Quel giorno però incontrai Fellini, che già conoscevo. Fu lui che mi presentò a Pier Paolo. Gli disse solo: «Fidati di lui». E Pasolini mi disse: «Vieni oggi pomeriggio»”.
E lei andò…
“Si. Restavano da girare le scene delle torture e quelle della festa del matrimonio. Quando entrai per la prima volta sul set, era tutto buio. Era un momento di pausa. Le luci si accesero all’improvviso e vidi il direttore della fotografia, Delli Colli. Poi entrò lui e mi salutò da lontano. Ma non mi diede nessuna indicazione. Ci furono molti silenzi, i suoi insegnamenti più grandi”.
Come lavorava Pasolini?
“Lo osservai molto attentamente. Era di una precisione assoluta, sempre dietro alla macchina da presa. Scendeva solo per dire qualcosa agli attori, ai quali io non potevo assolutamente avvicinarmi. Quando si iniziava a girare, tutto era diverso. Dovevi sentirti parte del set - e Salò era un set chiuso - altrimenti eri un intruso, un profanatore”.
Lei doveva fotografare, però.
“Non ci sono riuscito subito. Non riuscii a fotografare la prima scena di violenza, era troppo vera. Cercai comunque un metodo dl lavoro che non disturbasse troppo. A mano libera, senza treppiedi. Cercavo di non essere prepotente, al contrario di come sono in genere i fotografi. Capii anche che lui non voleva essere fotografato perché in quel momento stava facendo qualcosa dl veramente decisivo. Una volta però gli chiesi di fargli una fotografia ed è quella dove lui è seduto. Poi, per tre settimane sono stato commosso, toccato, violentato, torturato, indifeso rispetto alla violenza creativa che Pasolini riusciva a realizzare”.
Rappresentava la verità?
Solo con gli anni ho scoperto quanto lui fosse testimone di realtà e di verità. Nonostante questo, durante le riprese si comportava con dolcezza e persuasione. E agli attori non chiedeva di fare violenza, chiedeva di essere violenti. Di non giocare, perché diversamente non ci sarebbe stata nessuna verità nell’inquadratura. Intanto lui soffriva. La sua assistente alla regia, Fiorella Infascelli, lo ricorda bene e ha raccontato che Pier Paolo stava molto male durante le riprese: girava le scene della tortura, poi andava in bagno. Nessuno se ne accorgeva, ma aveva sempre mal di stomaco. Nello stesso tempo cercava di tranquillizzare tutti, non urlava mai”.
Lei ha tenuto quelle foto praticamente nascoste per trent’anni. Perché?
“È stata una forma dl rispetto nei suoi confronti. Lui mi aveva dato fiducia e la fiducia, secondo la mia etica umana, è sacra. Quando finii il mio lavoro, Pasolini mi disse: «Abbiamo tutto il tempo per vedere le foto. Fai la tua scelta e me le farai vedere prima che esca il film». Passò agosto e anche settembre. L’interesse per quelle foto cresceva, soprattutto all’estero: i giornali francesi me le chiedevano, io non le diedi, spiegando: «Il regista non le ha ancora viste». Lo chiamai e lo misi al corrente. Lui mi ripeté: «Abbiamo tempo». Invece fu ucciso”.
Cosa accadde a quel punto?
“In quei giorni ricevetti tantissime telefonate. Mi offrivano palate di soldi per pubblicare le sue ultime foto. Volevano le foto del «frocio» - dicevano proprio così - di un uomo di scandalo ammazzato da un marchettaro. Nessuno mi chiamò per avere le foto dell’intellettuale. Risposi sempre: «Pasolini è morto, nessuno vedrà quelle foto». Ma il rispetto per lui è stato il vero passaporto della mia carriera”.
Poi ha deciso di fare una mostra a Roma.
A trent’anni dalla morte, nel 2005, l’Auditorium mi diede carta bianca per fare una mostra su di lui. Dissi finalmente sì, ma a patto che nessuna foto fosse ripresa o messa su Internet. Temevo manipolazioni e strumentalizzazioni”.
Che testimone è stato Pasolini rispetto alla verità che andava raffigurando?
“Un testimone è un testimone. Lui mi ha fatto cambiare visione dell’immagine e l’immagine è il pensiero del tuo essere più profondo. Mi ha fatto tornare alla verità, alle mie radici dimenticate durante gli anni della cultura francese , e a quello che io volevo rappresentare. Credo che Salò possa insegnare anche questo: il valore della testimonianza. Per quanto mi riguarda. mi ha guidato attraverso un’evoluzione. Mi ha fatto aprire gli occhi. Capii quanto l’uomo può essere perverso. Capii che chi manipola sa di manipolare e gode nel farlo, ma chi è manipolato fa il suo stesso gioco, gode lui stesso, e se non si ribella diventa una vittima. E se la vittima non ha, o non riacquista la consapevolezza, l’unica sua via d’uscita è la morte”.
Niente di più attuale.
“Certamente, perché tutte le forme di manipolazione sono una violenza a tutti i livelli. E la manipolazione è possibile solo attraverso la mancanza di cultura. Questo è ciò che la peggiore politica ha sempre attuato: privarci della cultura. È la cultura che ci rende liberi e quindi consapevoli. Salò è un film fatto di intelligenza e cultura, un’opera purtroppo non finita, incompiuta come la vita del suo regista. Troncata”.
Di nuovo la sua mancanza…
“Oggi - parlo di questa epoca ma anche di questi giorni - manca uno come Pasolini, che parlava alto e forte, di tutto ciò che non si diceva o si diceva a voce troppo bassa. Mi ha lasciato moltissimo da cui poter ripartire”.
Sulla mostra di Fabián Cevallos a Roma vedi articolo in "Pagine corsare"
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