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La saggistica

"Pagine corsare"
Saggistica

Pier Paolo Pasolini a trent'anni dalla morte. Elogiato per la ragione sbagliata
di Franco Cassano, www.carta.org
6 novembre 2005

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disegno da "Intervista a Pasolini" di Davide Toffolo

A trent'anni dal suo assassinio, Pasolini continua a far discutere, anche se possiamo immaginare che avrebbe sospettato di tanti riconoscimenti. Ad uno sguardo più preciso, infatti, non è difficile scorgere che il nucleo duro della sua critica rimane ancora oggi poco compreso.

Molti parlano del «profetismo» del Pasolini apocalittico degli «Scritti corsari», perché scorgono in esso la straordinaria anticipazione degli effetti distruttivi del liberismo del capitale globalizzato. È un riconoscimento importante che non si deve sottovalutare, anche perché di questi profeti non ce ne sono molti, e la maggior parte dei coetanei di Pasolini in quegli anni cantava le «magnifiche sorti e progressive» della sinistra, vecchia o nuova che fosse. Ma in questo riconoscimento così generoso, che viene da una generazione ormai lontana da quegli anni, c’è anche il rischio di un’identificazione semplificata, di schiacciare Pasolini sulle proprie posizioni, perdendo l’originale capacità d’attrito del suo lavoro.

Altri, alcuni leader del ’68, che con lui ebbero relazioni tormentate, riducono la sua polemica con gli studenti e la stagione corsara ad un semplice espediente per attirare l’attenzione su di sé, in un quadro in cui i più acclamavano acriticamente le lotte studentesche. Spiace dirlo, ma la critica si potrebbe ritorcere: la riduzione della polemica pasoliniana ad una narcisistica ricerca di centralità è un maldestro espediente per evitare di fare i conti seriamente [e autocriticamente] con se stessi e quindi con la specificità di un’opera che a distanza di più di
trent’anni, lungi dall’impallidire, ha un’eco vastissima a livello internazionale.

La verità è che Pasolini diceva e ancora oggi dice qualcosa d’indigesto per tutti, qualcosa che, letto con attenzione e senza soggezione, aiuterebbe a fare i conti con gli errori del passato e con i limiti delle elaborazioni di oggi. Il punto più importante, quello da cui conviene partire, è la questione del sacro. Pasolini non era, come gran parte della sinistra di ieri e di oggi, un apologeta della secolarizzazione. Nella critica alla sacralizzazione della vita Pasolini vedeva un pericolo immenso, i lavori di scavo che preparavano la pista di atterraggio al nuovo potere della società dei consumi. 

«Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza - diceva a Jean Duflot - di senso del sacro nei miei contemporanei [...] perché è contrario alla mia natura profonda dissacrare sia le cose che la gente». 
Ma a giustificare e glorificare questa scomparsa del sacro era stata proprio la cultura progressista. Pasolini non si limita quindi a criticare la semplicistica identificazione della
nozione di progresso con quella di sviluppo, il punto sul quale si siede soddisfatta la maggior parte delle celebrazioni e delle elaborazioni teoriche di oggi. Egli dice qualcosa di più urticante, colpisce al cuore l’anima mitologica della sinistra, la mitologia delle infinite emancipazioni.
«Uno dei luoghi comuni più tipici degli intellettuali di sinistra è la volontà di sconsacrare [...] e desentimentalizzare la vita. […] Ma oggi il nuovo potere non impone più quella falsa sacralità e quei falsi sentimenti. Anzi è lui stesso [...] a volersene liberare. [...] Dunque la polemica contro la sacralità e i sentimenti, da parte degli intellettuali progressisti, che continuano a macinare il vecchio  illuminismo [...] è inutile. Oppure è utile al potere».
La catastrofe di cui Pasolini parla, il genocidio culturale, è qualcosa che la sinistra [vecchia e nuova] non solo non è stata capace di impedire, ma ha sostenuto ed esaltato come un grande progresso, come la premessa di un passaggio radicale e risolutivo. Ma questo passaggio
non si è prodotto e al suo posto è arrivato il neocapitalismo della società di consumi:
l’astuto giocatore è stato giocato.

Questo rovesciamento Pasolini lo ha sperimentato sulla propria opera. Nei film della «Trilogia della vita» egli aveva raccontato l’«innocente libertà dei corpi» contro la censura del vecchio potere reazionario e bigotto. Ma il nuovo potere cambia tutto: esso è tollerante e permissivo,
non ha più paura della nudità dei corpi e della lotta per la libertà d’espressione, ma addirittura li richiede come sostegno alla propria ulteriore espansione. La difesa del sacro è la mossa attraverso la quale Pasolini cerca di contrastare questo processo: 

«Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere, ed è più minacciata dalle istituzioni delle Chiese». 
Il sacro che Pasolini difende non è quindi quello delle istituzioni e delle Chiese, ma il sacro eretico, il sacro movimento. È per questa ragione che progetta di fare un film su San Paolo e in tutto l’ultimo periodo insiste sulla centralità della carità, che contrappone alle virtù sedentarie, la fede e la speranza, più gradite alle istituzioni. La carità è invece urgenza, «è ciò che importa». Essa è «il contrario di ogni istituzione», ma sa anche «che le istituzioni sono commoventi»; essa «è comprensione della creatura fuori dalla storia, / e, insieme, della storia: con le sue istituzioni!!».

C’è un punto molto delicato che Pasolini avverte con straordinario anticipo: la divaricazione crescente tra la cultura laica ufficiale e quella della carità e della stultitia, la cultura rivoluzionaria. La cultura laica, abbandonati gli antichi empiti radicali, è sempre più seduta sull’umorismo, sul distacco, ha celebrato come una liberazione il suo «indebolimento», ha imborghesito, liquidandole come metafisiche, anche le spinte più radicali.

Ma queste osservazioni non c’insegnano qualcosa di molto rilevante sul nostro presente? Non ci fanno percepire che la perdita dell’elemento messianico e rivoluzionario costituisce un drammatico impoverimento di quella stessa cultura che se n’era liberata con sufficienza? E che questo suo schiacciamento sulla protezione delle libertà e sull’accumulazione tecnico-scientifica è la ragione per cui oggi essa lascia uno spazio enorme all’iniziativa della Chiesa? Se essa tratta con fastidio qualsiasi forma di «trascendenza» rispetto al «qui ed ora», se è una grammatica leggera che sa coniugare i verbi solo con il pronome «io», non finisce
per consegnare le idee di limite e di senso nelle mani della Chiesa? 

Sbattendoci in faccia la questione del sacro, di un sacro capace di «esigere», di un sacro «eretico», Pasolini ci aiuta invece a scoprire un’idea di fraternità radicale. Egli sa benissimo che il codice della fraternità è sepolto nelle istituzioni, ma sa altrettanto bene che esse non sono capaci di custodire la carità. La fraternità che gli interessa è quella di chi rimane
per strada, l’unica possibile per chi ha detto, splendidamente: 

«E sono qui solo come un animale / senza nome: da nulla consacrato, / non appartenente a nessuno, / libero di una libertà che mi ha massacrato». 
La fraternità, per essere vera, dev’essere inquieta, ricordarsi sempre che non c’è nulla 
«/che valga una camminata senza fine per le strade povere, / dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani». 
Insomma lo scandalo e il paradosso devono continuare. È in questo non trovar posto la forza di Pasolini.
 
 
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Vedi anche: tutti gli aggiornamentii di "Pagine corsare" da ottobre 1998
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Pier Paolo Pasolini a trent'anni dalla morte. Elogiato per la ragione sbagliata, di Franco Cassano

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