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La saggistica

"Pagine corsare"
Saggistica

Il caso di un intellettuale
di Pier Paolo Pasolini

Dalla rubrica Il caos su “Il Tempo”, n. 33, 13 agosto 1968, poi in Il caos, a cura di Gian Carlo Ferretti,
Editori Riuniti, Roma 1981, ora in Pasolini Saggi sulla politica e sulla società,
a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano 1999.


 
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Pochi ricordano che, negli anni Sessanta, Aldo Braibanti era un intellettuale molto noto che scrisse libri, lavorò per la Rai, mise in scena spettacoli teatrali ed elaborò riflessioni di politica e filosofia. Pochissimi riescono a collegare quel nome ad un momento della storia dell'omosessualità in Italia forse a causa del silenzio montato faziosamente attorno a quell'uomo politicamente scomodo tanto a destra quanto al centro e a sinistra. Quel silenzio è incominciato con la scomparsa dalla scena pubblica dell'intellettuale, tuttora vivente ma ritiratosi a vita privata dopo essere giunto alla ribalta delle cronache quale colpevole, protagonista di una delle più grandi montature delle vicende italiane legate alla omosessualità. Nel 1968, infatti, fu accusato di aver plagiato due giovani allo scopo di intrattenere con loro, a detta dell'accusa, turpi rapporti omosessuali. Mai prima di allora, nella storia italiana, un reato del genere aveva portato a una condanna. Per Braibanti non fu così e l'uomo, sbattuto in prima pagina, divenne il mostro di turno agli occhi miopi dell'opinione pubblica che guardò al caso solo con interesse morboso. Il plagio, insomma, era un reato che poteva essere usato, in mancanza di leggi specifiche contro l'omosessualità in Italia, per colpire la devianza sessuale di una persona. Il caso Braibanti può certamente essere letto su molti piani diversi, ma l'interpretazione del processo in chiave antiomosessuale, fino adesso, è stata appena accennata e mai verificata fino in fondo. 
VEDI ANCHE:
Brevi notizie sul caso giudiziario di Aldo Braibanti;
Interrogazione alla Camera dei Deputati riguardante l'applicazione della Legge Bacchelli a favore di Aldo Braibanti, 2006;
Vitalizio a Braibanti, l'intellettuale del plagio. Un caso che fece epoca nell'Italia degli anni '60 , la Repubblica, 24 novembre 2006.

NELL'IMMAGINE, ALDO BRAIBANTI


Il caso di un intellettuale
di Pier Paolo Pasolini

Ho concluso il primo capitolo di questa mia rubrica, come un romanzo giallo, con una domanda: «Dov’è l’intellettuale, perché e come esiste?».

Infatti, dicevo, l’intellettuale è cacciato dai centri della borghesia (e relegato nel ghetto dove stanno i poeti, magari autorevoli), e, per il mondo operaio, non è che un testimone esterno (secondo la definizione, che citavo, di Rossana Rossanda, nel suo saggio L’anno degli studenti).

Una domanda come questa è possibile e stranamente attuale solo oggi. Una decina e meno di anni fa, la risposta sarebbe stata semplice e immediata: «L’intellettuale è una guida spirituale dell’aristocrazia operaia e anche della borghesia colta». Egli era, insomma, un’autorità:
un’autorità dell’opposizione. Era infatti il Pci - quello florido e ancora inattaccabile del dopoguerra, appena uscito dalla Resistenza - che determinava e decretava il successo letterario di un autore. L’Italia era allora un Paese povero (paleocapitalistico): e il letterato vi poteva facilmente assumere, come ancor oggi nei Paesi poveri e incolti, la funzione «nazionale» della guida, del vate, sia pur modernissimo, e magari cittadino onorario di Parigi. Ora, l’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal Pci, è passata nelle mani dell’industria.

Così che la risposta a quella mia domanda potrebbe essere, oggi, la seguente: «L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole».
 

Il rifiuto di Braibanti

In altre parole, l’intellettuale non è più la guida spirituale di popolo o borghesia in lotta (o appena reduci da una lotta), ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli.

In realtà tutte e due le risposte riguardano un intellettuale «medio», e quindi astratto: e, inoltre, evadono alla reale destinazione della domanda. A cui io stesso, del resto, non saprei rispondere, se non ricorrendo a termini esistenziali che so pericolosi e inetti.

So questo, tuttavia: che l’autorità dell’autore come guida spirituale, compagno di lotta ecc. è scaduta, declinando col periodo storico in cui è nata (un autore di quel tipo potrebbe esistere oggi nell’Egitto di Nasser, oppure in India), mentre l’autorità dell’autore come cantastorie per la borghesia è un fatto ignobile, del resto destinato rapidamente a passare, non appena l’Italia sarà veramente un Paese avanzato e ricco, e, perciò, l’industria culturale produrrà la sua merce al di fuori della letteratura: così che i due diversi prodotti avranno due diversi canali di distribuzione.

Braibanti è un caso di intellettuale che ha rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, o di sinistra; e ha poi rifiutato, naturalmente, l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale.

Questa seconda osservazione sembrerebbe ovvia: invece non lo è. Infatti lo scrittore caro all’industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi, in cui magari si parla del Vietnam: ma è (o lo è stato fino a ieri) anche lo scrittore d’avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di «potere», completamente inventati e lanciati dall’industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d’avanguardia (il Gruppo ‘63, testé defunto). Ora Braibanti è appunto uno scrittore d’avanguardia: eppure non ha fatto parte dei gruppi strepitanti, sciocchi e terroristici che cercavano non si sa che potere (che poi hanno infatti ottenuto, attraverso la completa integrazione o nell’industria o nel Pci). Tanto è vero che uno di questi scrittori d’avanguardia, ha risposto, l’idiota, a chi gli chiedeva di far qualcosa per Braibanti: «Io non penso a Braibanti, penso al Vietnam». Dove risulta chiaro come ci siano quotidianamente - e terroristicamente - delle fughe nel Vietnam.
 

Il delitto di essere solo

Braibanti non ha compiuto il minimo atto di terrorismo, mai. La sua presenza nella letteratura è sempre stata intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze. A me, personalmente, i suoi testi poetici non piacciono molto, perché non amo la letteratura d’avanguardia, qualunque essa sia, oggi: ma questo è un mio giudizio personale, probabilmente anche sbagliato. Ma ciò che produce Braibanti, io sono pronto a prenderlo in considerazione, e a stimarlo: esso infatti si «propone», come ogni vera ricerca, non si impone. Non sa cosa vuoL dire imporsi.

Se c'e un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla.

Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?

Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi
idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria... Invece egli si è rifiutato d’identificarsi con qualsiasi di queste figure - infine buffonesche - di intellettuale.

Da questa solitudine gli è derivata la sua debolezza, e dalla sua debolezza la sua autorità: autorità dunque più pericolosa di tutte.

Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano.
 

La paura dello scandalo

Di fronte invece allo scandalo di un uomo debole e solo, essi provano, dello scandalo, tutto il terrore. Si scatenano in essi liberamente vecchie, ancestrali aggressività, ignote certamente a loro stessi (non mi consta che nelle Facoltà di Legge ci sia qualche corso che riguardi la psicanalisi, o comunque qualsiasi materia delle scienze umane: a Legge si è culturalmente dei vecchi umanisti), e quindi condannano: a cuor leggero, perché lo scandalo è scandalo. Così come erano scandalo vivente, per le SS, ebrei, polacchi, comunisti, pederasti e zingari. In Italia esistono tuttora, insomma, quelle che Himmler ha definito una volta per tutte, vite indegne di essere vissute.

Taccio, perché sono io stesso terrorizzato. Ma per far capire al lettore come sia profondo e angoscioso questo fenomeno, dirotterò la mia indignazione: e me la prenderò con il competente in cose di giustizia del «Giorno», avvocato Alberto Dall’Ora, il quale, intervenendo sul caso Braibanti, a difesa, diceva che bisognava perdonare Braibanti, perché Braibanti era un malato, e che bisognava semmai sottoporlo alle stesse cure di uno dei plagiati: elettrochocs, chocs insulinici, e proibizione di letture di libri pubblicati negli ultimi cento anni!
 

La riforma dei codici

Enzo Forcella è intervenuto contro una simile gaffe del Dall’Ora: il quale ha cercato di rimediarvi, ma, secondo me, peggiorando ancora di più la sua situazione: che si rivela quella di un piccolo-borghese spaurito dallo scandalo, che, in questo caso, è l’omosessualità, e che, anche a lui, inconsapevolmente, appare come elemento che «rende la vita indegna di essere vissuta». Infatti egli rimedia la propria gaffe dicendo che l’omosessuale è un «malato recuperabile»: mantenendo con ciò la separazione, e concedendo agli omosessuali di uscire dal ghetto, solo in vista del fatto che possono essere in qualche modo utilizzati dalla società: è l’utilitarismo che maschera quindi la remissione del peccato: si tratta cioè di una provvisoria pace con la propria coscienza, che difende in sé, ferocemente, la norma contro tutto ciò che la mette in discussione.

Perché ho scritto questo articolo, quando so, che tutti, dopo averlo letto, e magari dopo averne condiviso molte idee, lo rimuoveranno dalla propria memoria, lo svuoteranno di continuità? Quando so che, di Braibanti, nessuno, in realtà, vuole sapere niente?

Bene, resta però il fatto che il caso Braibanti coinvolge il problema della riforma del Codice italiano. Ecco: che almeno la coscienza di tale problema resti nella memoria del lettore; e come un problema che lo riguarda, visto che, a proposito della tremenda sorte di Braibanti, lo spirito di conservazione è così infinitamente più forte di ogni carità.

La legge sul plagio, introdotta nel codice penale durante il periodo fascista, e in base alla quale Aldo Braibanti fu processato e condannato, venne abrogata con sentenza della Corte costituzionale n. 96 soltanto l'8 giugno 1981 [ndc].

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Aldo Braibanti e le vicende che lo videro processato in base
a una legge incostituzionale, retaggio dei codici fascisti.
Breve cronistoria

Giovanni aveva scelto di abbandonare la famiglia, composta da cattolici ferventi e di destra (il fratello Agostino fonderà a Piacenza un gruppo di lefebvriani) perché voleva vivere insieme a Braibanti e dedicarsi alla pittura. A testimonianza di questa volontà esiste una grande quantità di lettere spedite da Giovanni ai suoi, stranamente mai pubblicate fino adesso. Giovanni si era stabilito insieme a Braibanti a Roma. A questo punto i rapporti tra Giovanni e la famiglia divennero pessimi. Dopo continue visite che terminavano sovente in litigi, Ippolito Sanfratello decise di denunciare Braibanti come arma estrema per riconquistare il figlio alla famiglia e alle sue regole. Poi, il 1° novembre '64, con l'aiuto dell'altro figlio Agostino e di altri familiari, il padre si presentò alla porta di Braibanti e prelevò Giovanni con la forza. Lo portò in manicomio, dove rimase circa un anno e mezzo.

Il reato di plagio, abrogato nel 1981, era una fattispecie creata dal legislatore fascista e dai contorni assai nebulosi, tant'è che Braibanti resta l'unico condannato in Italia per questo reato. Puniva chi sottoponeva qualcuno al proprio potere in modo da assoggettarlo 'totalmente'. Una sorta di potere di convinzione, di influenza psicologica per la quale la vittima perdeva la facoltà di pensare autonomamente. Era chiaro che si trattava di un'arma per colpire chi non si conformava all'ordine stabilito: poteva ricadere in questa fattispecie qualsiasi idea che venisse divulgata e che convincesse qualcuno ma che fosse invisa alla maggioranza. In questo caso si colpiva l'ateismo di Braibanti, il suo essere comunista libertario, la sua morale sessuale. E soprattutto [...] l'omosessualità. Era un vicolo cieco che una volta imboccato lasciava senza scampo: se Giovanni avesse accusato Braibanti di averlo plagiato, l'accusa ne avrebbe tratto giovamento, logicamente; ma Giovanni difese l'imputato ammettendo che era consenziente. Questo fermò il processo? Niente affatto: fu presa come prova del fatto che Giovanni era ancora sotto l'influenza di Braibanti (dopo tre anni e mezzo in cui non lo aveva visto), cioè plagiato.

In difesa di Braibandi si mobilitarono i nomi della cultura di sinistra: Pasolini, Zavattini, Bellocchio, Elsa Morante, Dacia Maraini, Alberto Moravia e molti altri. Moravia parlò di un processo all'omosessualità, Pasolini disse di Braibanti: è un uomo solo e debole perché ha scelto di rifiutare l'autorità che gli sarebbe venuta dal definirsi intellettuale; questa debolezza è il suo scandalo. E se la prese con Alberto Dall'Ora che difendeva ipocritamente Braibanti per riproporre poi i soliti cliché dell'omosessuale malato.

Non mancarono comunque le difese a Braibanti. Tra i più noti firmatari di una lettera aperta ci furono Alberto Moravia, Carlo Levi, Cesare Zavattini, Nanni Balestrini, Laura Betti, Elsa Morante, Sylvano Bussotti, Marco Bellocchio e Tinto Brass. E durante i sette mesi che separarono l'arresto dell'imputato dalla celebrazione del processo, l'attenzione di Pier Paolo Pasolini per le sorti di Braibanti non cessò mai. Anche Elsa Morante fu molto attiva sulla stampa nel difendere Braibanti e Dacia Maraini con i suoi articoli sul processo fu una cronista lucida e imparziale. C'è infine da registrare la mobilitazione da parte del Partito radicale, e di Marco Pannella in particolare, con appelli, articoli sulla stampa e manifestazioni di protesta che si svolsero nel totale isolamento politico.

Né gli appelli né gli articoli in favore di Braibanti poterono niente davanti a rappresentanti dell'accusa a cui fu permesso di presentarli in aula dicendo: "ed ecco i soliti appelli firmati dai soliti intellettuali di merda". Nel tentativo di screditare un teste della difesa, al musicista Sylvano Bussotti chiesero se aveva firmato l'appello. Bussotti è un amico di Braibanti. Una delle domande successive fu: "Lei è omosessuale?".

Il concetto di omosessualità entra nel caso. Ovviamente l'ignoranza e il pregiudizio da parte di giuristi e medici dell'epoca danno vita alle solite avvilenti idee preconcette sugli omosessuali quali pervertiti attentatori della sana gioventù, per cui si evince che la condanna a nove anni di carcere (condanna poi ridotta in cassazione), inflitta il 12 luglio 1968 ad Aldo Braibanti, ha a che fare soprattutto con la sessualità e non con l'articolo 603 del codice penale che contemplava il reato di plagio.

Scontato il carcere Braibanti tornò a vivere nella sua casa romana. A parte qualche parentesi di collaborazione con la Rai di Torino alla fine degli anni '70, a parte alcuni spettacoli teatrali e alcuni film, Braibanti è rimasto sempre ai margini della produzione culturale. Un po' per scelta, perché odia sinceramente l'esibizione ed è una persona estremamente riservata, un po' perché è stato tagliato fuori a causa del processo. Nelle menti di tutti Braibanti è il plagiatore, poco importa quello che sa fare o scrivere. Nel frattempo il reato di plagio è stato abrogato dal codice, dando alla fine ragione alla difesa di Braibanti. Ma quel reato è ancora nelle coscienze della gente. Secondo molti esiste la possibilità di plagiare qualcuno, secondo Braibanti no. E la possibilità che quest'arma torni ad essere usata per colpire chi la pensa diversamente lo inquieta ancora molto.

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Omosessuale dichiarato, Braibanti trascorse l'estate del 1960 a Como in compagnia di Piercarlo Toscani, un elettricista 19enne. Due anni dopo, quando ormai risiedeva nella Capitale, visse invece insieme al 18enne Giovanni Sanfratello, che aveva conosciuto quattro anni prima: il giovane aveva abbandonato la famiglia (cattolica e tradizionalista) in quanto i genitori aveva intenzione di farlo interdire per le sue frequentazioni di sinistra e con ambienti artistici.

Nel 1964 Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, denunciò Braibanti per plagio: in pratica, secondo l'accusa, i due ragazzi erano stati soggiogati dall'intellettuale, che li aveva ridotti a una sorta di "schiavitù mentale".

Braibanti nella sua difesa fece notare che i ragazzi avevano deciso di seguirlo autonomamente e da adulti: durante il processo, Sanfratello avvalorò questa tesi, mentre Toscani depose contro di lui. Al termine delle udienze, nel 1968, l'imputato venne condannato a nove anni di reclusione, successivamente ridotti a sei ed infine a quattro (due gli vennero condonati in quanto ex partigiano).

La condanna suscitò ampia eco in tutta Italia, e a favore di Braibanti si mobilitarono numerosi intellettuali, fra i quali Alberto Moravia e Umberto Eco. Il processo rivelò infatti rapidamente la sua natura politica, proponendosi come l'estremo tentativo del vecchio ordine sociale (lo stesso che aveva già usato il tema dell'omosessualità nel caso dei balletti verdi), per imporre i propri valori contro la marea montante del Sessantotto. In effetti, a differenza di quanto è avvenuto in altre nazioni, nella storia italiana l'omosessualità è stata usata giudiziariamente per fini politici esclusivamente in questi due casi.

Braibanti fu scelto come "capro espiatorio" in quanto al tempo stesso comunista ed ex partigiano, ma anche omosessuale, in un periodo in cui l'omosessualità era giudicata "indifendibile" (in quando "degenerazione piccoloborghese") anche e soprattutto tra le file della sinistra. La sua era quindi, dal punto di vista propagandistico, una figura che essendo "indifendibile" era utile per dimostrare che i comunisti stavano corrompendo la gioventù italiana e i valori famigliari tradizionali.

Va inoltre notato che la controversa legge sul plagio, introdotta nel codice penale durante il periodo fascista, portò nel dopoguerra ad una condanna in questo unico caso e fu successivamente abolita, senza essere più stata applicata, grazie all'infuocato dibattito scatenato dalla sua condanna, con sentenza della Corte costituzionale n. 96 dell'8 giugno 1981.

Né esisteva ancora in Italia un movimento di liberazione omosessuale che potesse fare di questo processo un caso emblematico. Dalle colonne di Tempo Illustrato, Pier Paolo Pasolini fece notare che: «Una delle cause della condanna al processo è la debolezza del Braibanti, nel senso che egli non aveva valori precostituiti, un aggancio a Lo stesso Braibanti non si è mai considerato parte del movimento gay.

In un'intervista, Braibanti disse che non si considerava una vittima e che, tra gli intellettuali di sinistra, gli era stata vicina in quei momenti soprattutto Elsa Morante.

Nella stessa intervista, riguardo alla nascita del movimento gay, egli dichiarò inoltre: «Non farò mai il militante omosessuale, ma non mi piace dare un giudizio. Però penso che i movimenti gay e gli altri di questo tipo siano molto importanti, hanno la funzione di preparare molte persone che altrimenti sarebbero incapaci di inserirsi nella militanza, a sentirsi pari a coloro che credono di essere già pari e di poter combattere per la rivoluzione.»

FONTI: 
www.ilprocessobraibanti.com/
www.stefanobolognini.it/
http://it.wikipedia.org/wiki/


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Interrogazione sull'assegnazione di un vitalizio ad Aldo Braibanti
 
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-00748 presentata da Franco Grillini lunedì 31 luglio 2006 nella seduta n.034
Firmatari: Grillini, Azzolini, Barani, Bellillo, Bimbi, Bondi, Boniver, Bucchino, Burgio, Cancrini, Carbonella, Carta, Cicchitto, Craxi, De Simone, De Zulueta, Della Vedova, Daniele Farina, Fedi, Floresta, Folena, Frias, Forlani, Fumagalli, Gambescia, Giachetti, Giordano, Giro, Grassi, Guadagno Detto Vladimir Luxuria, Lenzi, Mancini, Mellano, Migliavacca, Moroni, Ottone, Piro, Pizzolante, Poretti, Rampi, Ranieri, Mario Ricci, Rivolta, Sanna, Sasso, Sgobio, Trupia, Uggè E Verdini. 

Al Presidente del Consiglio dei ministri. 
Per sapere - premesso che: 

Aldo Braibanti si è distinto per un altissimo impegno civile e culturale. Già a sedici anni fonda un gruppo studentesco antifascista a Firenze. Nel 1943 entra nel Partito Comunista Clandestino e combatte da partigiano nella guerra di Liberazione; 

Aldo Braibanti è studioso di mirmecologia, poeta, saggista, traduttore. Artista di fama internazionale di arte plastica e figurativa. Ha esposto le sue ceramiche e i suoi collages nelle principali capitali europee. Ha anche esercitato una costante e riconosciuta attività di poeta, autore e regista teatrale e si è fatto apprezzare per un'interessante produzione di video d'arte. Ha curato delle trasmissioni radiofoniche per la Rai, ha scritto e messo in scena spettacoli teatrali ed è stato regista di alcuni film sperimentali; 

Aldo Braibanti nel 1964 secondo gli interroganti è stato vittima di una delle più eclatanti discriminazioni ai danni di un omosessuale che la recente storia italiana ricordi. Fu denunciato per plagio nei confronti di due giovani maggiorenni e riconosciuto colpevole nel 1968, è stato condannato a nove anni di carcere, commutati a sei in appello. Braibanti è stato e sarà il solo cittadino italiano ad essere condannato per il reato di plagio in epoca repubblicana. Nel 1981 il reato di plagio, una fattispecie creata dal legislatore fascista dai contorni assai nebulosi tesa a colpire chi non si conformava all'ordine stabilito, è stato cancellato dal codice con una sentenza della Corte costituzionale e Braibanti resta l'unico condannato in Italia per questo reato;

ad Aldo Braibanti è stato comunicato lo sfratto dall'appartamento di via del Portico D'Ottavia a Roma dove vive e conserva un archivio di 7.000 volumi e di innumerevoli opere artistiche; 

lo stesso Braibanti vive con una modesta pensione sociale che non gli consente di trovare una sistemazione abitativa alternativa né di condurre una vita dignitosa : 

se non ritenga che Aldo Braibanti presenti i requisiti richiesti dalla cosiddetta Legge Bacchelli per l'assegnazione di un vitalizio «destinato a quei cittadini che abbiano dato lustro alla patria e che versino in stato di necessità» e che il suddetto vitalizio rappresenti anche una forma di risarcimento morale per la vicenda giudiziaria nella quale è stato vittima anche perché lo Stato italiano, in virtù della cancellazione del reato per cui Braibanti fu stato condannato, ha riconosciuto come ingiusta la sua detenzione; 

se non ritenga che la pratica di assegnazione, da tempo giacente presso la Presidenza del Consiglio, venga riaperta immediatamente, e ne sia accelerato l'iter, in virtù del grave stato di salute nel quale versa il Braibanti.


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Vitalizio a Braibanti, l'intellettuale del plagio.
Un caso che fece epoca nell'Italia degli anni '60
la Repubblica, 24 novembre 2006

"Sono contento, ma parlerò soltanto quando avrò la comunicazione ufficiale". Aldo Braibanti ha commentato così al telefono con un amico la notizia che il governo italiano ha deciso di attribuirgli un vitalizio previsto dalla legge Bacchelli. 

Aldo Braibanti, scrittore, filosofo, artista poliedrico, sceneggiatore, regista, curatore di trasmissioni radio, alla fine degli anni ‘60 fu al centro di un famoso caso giudiziario che alla fine lo vide condannare per l'accusa di plagio nei confronti di un ragazzo. 

Braibanti, nato il 23 settembre del nel 1922 a Fiorenzuola d'Arda, dichiaratamente omosessuale, aveva partecipato alla Resistenza ed era stato arrestato e torturato dai nazifascisti. Iscritto al Pci alla fine degli anni ‘40 aveva abbandonato tutte le cariche di partito. Venne arrestato il 5 dicembre 1967 perché il padre di un ragazzo che era andato a vivere con lui lo denunciò per plagio. 

Il 14 luglio 1968 la Corte di Assise di Roma lo condannò a nove anni di carcere. Pena ridotta successivamente. Nel giugno 1981 l'articolo del Codice penale sul plagio venne però abrogato dalla Consulta in quanto non conforme alla Carta costituzionale. E nel marzo 1982 la Corte d'appello ordinò che della condanna non si facesse più menzione nel suo certificato penale. 

Dalla metà degli anni '80 il professore vive in estreme ristrettezze. Per questo nell'87 un gruppo di artisti e uomini di cultura firmarono un appello in suo favore. Un appello rilanciato da Grillini e dalla Melandri nel 2003; poi, oggetto di una interrogazione alla Camera dei Deputati. La decisione del governo è "una vittoria perché rappresenta una grande risarcimento storico.

”Quel processo non era per plagio ma contro l'omosessualità", hanno commentato ieri sera lo stesso Grillini e il coordinatore della segreteria diessina Migliavacca. Per l'Arcigay "è una notizia che apre il cuore, bel segnale di laicità". 
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Vedi anche: tutti gli aggiornamenti di "Pagine corsare" da ottobre 1998
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Il caso di un intellettuale, di Pier Paolo Pasolini

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