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I ricordi .
(fondo del direttore) . La fine atroce di Pier Paolo Pasolini priva la cultura italiana di un alto ingegno critico e il movimento democratico di un vero militante, animato da una intensa passione civile. Crediamo di essere nel vero se diciamo che la notizia della sua morte ha colpito in modo sconvolgente la mente di ognuno, suscitando riflessioni che toccano direttamente proprio i temi, i problemi di cui egli da sempre ha dedicato la sua travagliata fatica di artista e di studioso. Vi è una coincidenza tragicamente coerente tra la ricerca nella quale Pasolini ha impegnato, nelle diverse fasi di una molteplice attività creativa, la sua intelligenza e il suo sforzo conoscitivo, e il dramma personale della sua esistenza, e oggi, della sua morte. La “vita violenta”, di cui egli ha indagato con profonda vivacità intellettuale forse senza uguali nel nostro Paese, è divenuta ora causa terribile della sua scomparsa. Quasi che egli avesse teso a cercare questo epilogo. Per cui le parole delle sue poesie, dei suoi libri, dei suoi articoli, le immagini dei suoi film acquistano adesso una dimensione nuova, il suo teorema trova una crudele dimostrazione. È stato fino all’ultimo un nostro interlocutore attento, interessato, aspro, senza concessioni. Nelle tante discussioni intrecciate con lui, abbiamo avuto certamente spesso ragione e qualche volta, altrettanto certamente, torto. Era facile “avere ragione” contro Pasolini, richiamarlo alla concretezza storica dinanzi ai suoi paradossi, alle sue forzature che talora sembrava volessero evadere dalla storia. Ma abbiamo avuto indubbiamente torto quando, al di là dei paradossi e delle forzature, non abbiamo saputo cogliere quella prospettiva di verità che egli tentava di trasmettere, e che soffriva nella propria stessa esistenza. Era un uomo profondamente inserito nelle tensioni del mondo contemporaneo. La sua dura denuncia delle devastazioni introdotte nell’animo popolare e degli strati sottoproletari dall’ingiustizia e dai valori negativi di un sistema aberrante, avevano fatto di lui l’obiettivo di campagne indegne, di linciaggi vergognosi. I fascisti l’hanno sempre odiato, egli è stato il simbolo di tutto ciò che essi più avversano, la civiltà, la cultura, l’inquietudine della ricerca. Per gli stessi motivi, è al movimento operaio, al Partito comunista che Pasolini ha guardato con partecipazione dialettica. In ogni momento decisivo, egli è stato presente, è stato dalla parte giusta. La sua morte è una tragedia di questa società. . . .Con civile coscienza di fronte allo “scandalo” di PaoloVolponi «Su tutto è sempre prevalsa l’idea, disperata ma rassegnata, che la propria vita si fosse rimpicciolita: ma che comunque fosse aumentato il piacere di vivere in ragione della materiale diminuzione del futuro». Sono le parole con le quali Pier Paolo Pasolini chiuse il risvolto del suo libro di poesie Trasumanar e organizzar. ![]() Davoli ha ancora gli occhi rossi, si stringe nell'impermeabile, cerca di raccontare quanto è successo: «Stamattina presto - dice - mi ha telefonato la cugina di Pier Paolo, Graziella, che vive con lui e con la madre. Era preoccupata. Mi ha detto che i carabinieri avevano trovato l'automobile rubata a Paolo, ed erano venuti a casa sua alle due di mattina. Ma che di Paolo ancora non si sapeva nulla. Mi sono precipitato qui, e poi sono andato subito dai carabinieri. Ho chiesto informazioni, notizie, ma nessuno mi ha saputo dire niente. Poi ho sentito che avevano trovato un cadavere a Ostia. Dicevano che non poteva essere quello di Pasolini. Neanche io ci volevo credere, ma ho convinto i carabinieri ad accompagnarmi sul posto. Volevo vedere, accertarmi...». Davoli è circondato dai giornalisti che arrivano uno dietro l'altro. Continua il suo racconto: «Ad Ostia mi sono prima fatto portare all'automobile, quella rubata. Quando ho visto che dentro c'erano gli occhiali, ho capito che era successo qualcosa a Paolo; non si separava mai dai suoi occhiali. Poi, quando siamo arrivati all'idroscalo l'ho riconosciuto». Qualcuno gli chiede particolari sul riconoscimento, ma Davoli non vuole parlarne. «Che vi devo dire? E' una cosa atroce. Non riesco a capire come si possa passare avanti e indietro, con un'auto, sul corpo di un uomo». L'attore racconta che spesso Pasolini riceveva telefonate anonime di minaccia, e che periodicamente era costretto a cambiare il numero di telefono. Veniva anche insultato, aggredito per strada, e che lui aveva dovuto difenderlo più di una volta. «Ma quella che ha ucciso Paolo è una violenza diversa, assurda. E pensare che proprio ieri - continua Davoli - siamo andati a cena insieme, a San Lorenzo. Eravamo soltanto lui, io, mia moglie e i miei figli. Abbiamo parlato un po' di tutto; del lavoro, di una sceneggiatura che gli avevo dato e anche delle polemiche che avevano suscitato i suoi ultimi articoli. Paolo era normale, ma sembrava triste, amareggiato, ripeteva quello che ha detto e scritto negli ultimi tempi. Arrivando alla trattoria, mi ha detto di aver camminato a testa bassa, per non guardare la gente, quasi ne avesse paura. Siamo stati insieme un'oretta, poi se n'è andato, ha detto che aveva da fare, che andava a leggere la mia sceneggiatura. Mi avrebbe dovuto telefonare questa mattina». Il racconto di Ninetto Davoli si ferma qui. L'attore si dirige in fretta verso l'ingresso di via Eufrate 9, al quale il portiere fa avvicinare solo gli amici stretti. Qualcuno gli chiede un giudizio, un'impressione su Pasolini: «Non ci sono parole - risponde Davoli - per me non era solo un regista, era un amico, l'uomo più buono che abbia conosciuto». . |
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