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Ricordi Vincenzo Cerami. Ricordi di scuola
«Io ero un bambino timido. In seguito a una malattia, che mi aveva tenuto isolato dagli altri, ero diventato introverso e poco socievole. Desideravo comunicare con lui, ma non sapevo come fare. Non riuscivo a parlargli. Ricordo che il primo contatto tra noi si è stabilito in occasione di un tema che ci aveva dato da svolgere a casa. “Una gita in montagna”, era questo il titolo. Provenendo dal Nord, Pasolini non sapeva che lì a Ciampino noi non avevamo mai visto una montagna. Mi misi a scrivere raccontando una improbabile salita al Terminillo con tempeste di neve, valanghe e pericoli di ogni genere, tra i quali risaltava la dimensione eroica che cercavo di attribuirmi. Volevo fare bella figura con lui e credo di esserci riuscito. Il tema gli piacque, tanto è vero che lo lesse ad alta voce in classe davanti a tutti. Fingendo di parlare d’altro, ero riuscito a parlare di me. Posso dire che, da quel momento, non ho mai smesso di scrivere temi liberi». «Non è facile per me dire così su due piedi che cosa ho imparato da Pasolini, ma la cosa più importante penso che sia la passione che mi ha trasmesso per qualcosa che era fuori di me. La passione per il mondo. L’altra cosa che mi ha insegnato è che, se volevo essere un buon narratore, dovevo parlare delle cose che conoscevo. Credo che il segreto della buona letteratura consista in questo: raccontarsi a qualcuno raccontando il mondo. La cosa vale in entrambi i sensi. D’altra parte, nessuno di noi può raccontarsi se prima non si inquadra all’interno del mondo in cui vive. Questo non è soltanto lo scopo della letteratura, ma anche quello delle arti visive. Se andiamo a vedere i graffiti tracciati dagli uomini primitivi sulle pareti delle caverne, ci accorgiamo che il primo atto di intelligenza compiuto dall’uomo consiste nel distacco con il quale è riuscito a osservare il mondo esterno, assumendo così un atteggiamento dialettico nei confronti della realtà. Questa è stata la prima funzione dell’arte. La seconda è di carattere testamentario. Trasmettere ai posteri le esperienze compiute da altri prima di loro, in modo che possano farne tesoro». «Quando, in secoli a noi più vicini, nel susseguirsi degli stili tra tardo antico, bizantino e gotico internazionale arriva, con la forza sconvolgente di una meteora, l’invenzione della prospettiva, che apre spazi virtuali di fronte allo sguardo umano, possiamo appena immaginare la sorpresa di cui recano testimonianza i documenti stilati dai testimoni diretti dell’evento. Con il Caravaggio la luce assume un ruolo da protagonista e, dentro il quadro, comincia a farsi strada il racconto. Questa voglia di raccontare il reale arriva nel Seicento a una sorta di fanatismo che si manifesta nella natura morta, dove si vedono mele più vere del vero, con la buccia appena ossidata, con un vermicello che esce dal buco, e lì accanto un fico con la pelle screpolata, dalla quale sgorga una lacrimuccia zuccherosa... Pare quasi che il pittore si diverta a far venire l’acquolina in bocca a chi guarda il quadro. In seguito gli artisti hanno cominciato a capire che la realtà non poteva essere scambiata con la sua riproduzione materiale per quanto minuziosa, e hanno fatto piazza pulita di tutti i tecnicismi da laboratorio di ottica: camera oscura, lenti di ingrandimento...»
«L’arte da quando esiste, come la letteratura e come adesso il cinema, ha sempre cercato di raccontare il reale. Osservare il mondo non vuol dire assumerlo in maniera acritica così come è... Quando immagino i personaggi dei quali racconto la storia nei miei libri, provo nei loro confronti un sentimento duplice di ammirazione e di pena. Ammiro la loro dimensione di creature. Venero la santità del loro corpo. Mi esalta l’erompere vitale del loro esistere... Parto dal principio che nasciamo tutti nudi, piccoli e inermi... Poi cominciamo a guardarci attorno e scopriamo che siamo nati in un posto piuttosto che in un altro. Ci mettono addosso degli abiti. Ci insegnano una lingua. Guardiamo la televisione. Mangiamo certe cose e assimiliamo a poco a poco quella che chiamiamo cultura. Questa cultura serve per la convivenza civile, ma è pur sempre una corazza in qualche modo repressiva rispetto allo stato di innocenza con il quale Dio ci ha fatto nascere.» «Vedo ciascuno di noi come una sorta di san Francesco, il quale, da giovane, era vestito di abiti sfarzosi perché figlio di un ricco mercante. Un bel giorno si toglie di dosso questi vestiti, che gli conferivano un aspetto da uomo ragguardevole, e scopre di avere un corpo gracile e magro. Uno scricciolo, come direbbe Montale. Si è messo un sacco addosso, ha cominciato ad amare l’aria, l’acqua, il fuoco..., le pietre inerti, che sono lì da milioni di anni, gli alberi, gli uccelli... L’uomo e la pietra sono, per Francesco, la stessa identica cosa. Nella mia condizione di scrittore vedo l’uomo così. Però lo vedo anche vittima di una serie di comportamenti che gli vengono imposti dalla cultura o dalla sottocultura alla quale appartiene, dalla società che elabora miti... Tutte cose delle quali dovrebbe avere il coraggio di spogliarsi per ottenere quella libertà che è legata alla condizione della sua originaria purezza». Personaggi metafisici
«Non solamente ho conosciuto Totò, al quale mi rivolgevo chiamandolo principe - precisa Cerami -, ma, quando ho potuto, ho attinto informazioni su di lui interrogando coloro che lo hanno conosciuto prima di me. Fellini mi ha raccontato di averlo visto recitare in teatro prima della guerra. Diceva che il Totò che siamo abituati a vedere al cinema non è nemmeno un decimo di quello che era a teatro. Da giovane Totò era magrissimo e tutto snodato (un po’ come adesso è Benigni). Si arrampicava su per il sipario e poi scendeva con evoluzioni da ginnasta, come Buster Keaton, che era coperto di cicatrici perché il padre (attore anche lui) quando era piccolo lo lanciava da una parte all’altra del palcoscenico. Fellini mi diceva di aver assistito a qualche spettacolo di Totò da dietro le quinte. Quando usciva a raccogliere gli applausi e le richieste di bis, diceva ai siparisti: “Adesso li faccio ridere con la i”. Andava fuori, faceva una gag e si sentiva il pubblico che rideva: “iii...”. Era capace di far ridere con la i, con la a, con la u. Decideva lui quando e come doveva ridere il pubblico. Era una macchina comica dotata di un ingranaggio perfetto. Non sbagliava mai un colpo». ![]() «Stanlio e Olio chi sono? Quale grado di parentela li unisce? Sono fratelli, cugini?... Quando si sono incontrati per la prima volta? Perché litigano e stanno sempre insieme? Sono sposati?... A volte si vedono le mogli, altre volte non si vedono... A volte si travestono essi stessi da donna per fingere di essere la moglie l’uno dell’altro... Non sappiamo nulla. Di Charlot sappiamo forse qualcosa? Lo stesso si può dire di Buster Keaton e di altri. Si tratta di personaggi metafisici, che rincorrono bisogni elementari: la fame e l’amore. Non è facile allestire la griglia che fa da supporto a un film comico. Non deve essere infatti un pretesto per cucire insieme sketch, ma la proposta di un vero film, che tenga conto delle caratteristiche di questi attori-personaggi e dia spazio alle loro straordinarie capacità espressive. Un grande poeta, John Keats, diceva che non è bello quello che è vero, ma piuttosto al contrario è vero soltanto quello che è bello. Questo concetto, che assomiglia a un gioco di parole, sta al fondo di ogni opera d’arte. Se l’opera è bella ti conduce inevitabilmente verso la verità. Anche un film comico, che sembra fatto solamente per regalare a chi lo vede un’ora di spensieratezza, può aiutare a capire il senso del momento nel quale viviamo». ![]()
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