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Notizie Pelosi: «Pasolini? Lo conoscevo già» Il colonnello Garofano dei Ris: "Va riaperto il caso Pasolini" Caso Pasolini: Nino Marazzita pronto a chiedere la riapertura Pelosi: "Pasolini morto per un complotto" Morte di Pasolini
Parla l'ex "ragazzo di vita": «una sera mi portò un libro, ricordo come si toglieva gli occhiali...». La intervistatrice chiede un ricordo (una frase, un gesto, uno sguardo) di Pasolini. E Pino Pelosi ricorda il «gesto che... che si levava gli occhiali». Lo ha visto spesso quel gesto, non solo la notte all'Idroscalo di Ostia, fra il 1° e il 2 novembre 1975? Pelosi non risponde. Ma continua così: «Poi che mi ricordo? La sua voce così... persuasiva... era una persona colta affabile io non ho mai parlato male di lui neanche quando ho detto che mi sono difeso... ma io non ho mai parlato male... poi diceva Dr Jekyll e Mr Hyde, lui stesso si definiva così. (...) Un giorno mi portò un libro in cui si definiva lui stesso uno che a volte cambiava come Dr Jekyll e Mr Hyde». Giuseppe Pelosi, il ragazzo che vide per ultimo in vita Pier Paolo Pasolini, che confessò di averlo ucciso e per quel delitto si prese la condanna a 9 anni di carcere, parla con Roberta Torre, la regista che sta realizzando un film-reportage sulle borgate romane. Senza mai dirlo apertamente («No comment... io sto scrivendo la mia verità... ci sono cose che non ti posso rivelare adesso. Quando sarà il momento») fa intendere che tra lui, che allora aveva 17 anni, e Pasolini c'era stato qualcosa di più di un incontro, il primo e l'ultimo. Quello cominciato con lui che sale sull'Alfa Gt di Pasolini in Piazza dei Cinquecento, che ha fame (si fermano al ristorante Biondo Tevere dove mangia solo lui: «ajo ojo e peperoncino e mezza birra») per poi finire a Ostia, sui prati sporchi dell'Idroscalo. Pasolini gli aveva portato un suo libro, quindi è logico pensare che si fossero visti più di una volta. Pelosi aggiunge altre notazioni: che Pasolini aveva una voce «come una melodia». E a proposito di quella voce ricorda: «Per me era dolce la sera che l'ho conosciuto... l'ultima cena che abbiamo fatto». Dice proprio «l'ultima cena», vuol dirci forse che ce n'erano state altre? Che per lui Pasolini non era uno sconosciuto come ha sempre dichiarato? Che il poeta e Pelosi si conoscessero già, furono in molti a pensarlo e scriverlo allora; Nico Naldini, cugino del poeta, in Come ci si difende dai ricordi (2005) scrive che Pelosi era già andato qualche sera prima con un suo amico architetto. Pelosi però ha sempre mantenuto la versione originale: non si erano mai conosciuti prima. ANGELO NERO - Fra menzogne e reticenze Pelosi - oggi, a 50 anni, vive al Tiburtino III in uno scantinato pieno di fotografie, fa un «lavoro socialmente utile», spazza i giardinetti - continua a rimandarci a una sua verità che, al momento giusto, verrà fuori. Dieci anni fa, nel libro scritto con Gianfranco Di Leo (Io, angelo nero, ed. Sinnos, postfazione di Dacia Maraini), non era ancora il momento: in quelle pagine non c'era niente di nuovo. Ma nel 2005 ha cominciato a fare rivelazioni. In un'intervista a Franca Leosini per Ombre sul giallo, il programma di RaiTre in onda il 7 maggio, ritratta la sua confessione. Dice che non fu lui a uccidere il poeta; che fu massacrato da tre uomini arrivati all'Idroscalo di Ostia su una Fiat targata Catania; che lui provò a difenderlo, fu picchiato, e che quelli infierivano su Pasolini urlando «sporco comunista». Se non ha parlato prima, è stato per paura del male che «quelli» potevano fare alla sua famiglia. Gli amici del poeta e l'avvocato di parte civile Nino Marazzita chiedono la riapertura del caso. Parla anche Sergio Citti, regista, amico di Pasolini, che dice che erano in cinque gli assassini del poeta, attirato in una trappola con la scusa di recuperare le pellicole rubate di Salò. Ma i giudici archiviano la richiesta di riapertura del processo. Ora, di nuovo, in questi giorni, l'avvocato Marazzita torna a chiedere che il caso sia riaperto. Ha preparato anche lui un documentario. Intanto, da Rizzoli, esce un libro di Luciano Garofano, il colonnello dei Ris di Parma (Delitti e misteri del passato), che scrive che «il caso Pasolini non può considerarsi chiuso ». La grande quantità di reperti - conservati al Museo Criminologico di Roma - se esaminati con le tecniche di oggi, possono aiutare finalmente a fare luce su quel delitto. UN FANTASMA DI BORGATA - «La prima volta che ho incontrato Pelosi è stato circa un anno fa. Mi ci aveva portato Gianluca Cacciagrano, con cui collaboro per il film-reportage sulle borgate romane. A un certo punto Pelosi ci dice: "La cocaina non ha più un sapore soave". Quell'aggettivo mi fa un grande effetto. L'impressione che ho è quella di trovarmi davanti a una persona "parlata" da qualcun altro, abitata da un fantasma che a intermittenza ritorna nel suo linguaggio. In seguito, nelle conversazioni successive, dirà che la voce di Pasolini era "come una melodia", era "un tono soave". La prima idea che ci viene è di fare un lavoro teatrale su Pelosi e il fantasma di Pasolini. Anche Dacia Maraini, nella postfazione al libro del '95, parlava del fantasma che visita Pelosi. Poi riprendiamo l'idea del film, che è una rivisitazione delle borgate oggi, dei luoghi di Pasolini a più di trent'anni dalla sua morte. Guidati dal suo fantasma, di cui Pelosi è il portatore, è il medium». Roberta Torre è alle ultime settimane di riprese per il suo Il sogno del poeta, prodotto da Rosettafilm e Accademia perduta, e firmato insieme con Gianluca Cacciagrano. La fotografia è di Roberto Cimatti, vi compare l'attore Claudio Casadio. Dopo molti anni a Palermo (sono nati lì i film che le hanno dato il successo: Tano da morire e Sud Side Story) ora vive a Roma. Dove ha già girato un documentario sul Tiburtino III, Storie di vita e malavita. L'ombra di Pasolini e l'incontro con Pelosi hanno dato l'avvio a questo nuovo film. Per cui la Torre si è preparata, non solo leggendo pagine e pagine di e su Pasolini e il romanzo-saggio di Walter Siti sulle borgate Contagio, ma anche studiando i film recenti dedicati alla morte del poeta (Pasolini un delitto italiano di Marco Tullio Giordana e Nerolio di Aurelio Grimaldi) nonché il monologo teatrale di Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci, 'Na specie de cadavere lunghissimo. L'ANELLO DI PINO - Roberta Torre e il suo operatore sono andati al Museo Criminologico di via del Gonfalone, a Roma, a filmare il contenuto delle scatole, una su Pasolini l'altra su Pelosi, con i reperti del luogo del delitto. E ha fatto vedere a Pelosi quelle immagini. «Abbiamo scelto di uscire fuori dalle solite domande sulla falsariga giudiziaria, non volevamo rifargli dire le storie dei tre assassini, della sua innocenza ecc. Sui fatti è quasi impossibile ormai distinguere le bugie dalla verità. A volte lui la vendeva pure la sua verità, a certi giornalisti diceva: se ti dico una cosa in più, quanto mi dai? A noi interessava quello che c'era intorno, le questioni emotive, quello che in lui evocano gli oggetti, le immagini di quella notte». Così ecco le scarpe di Pelosi «alla Elton John» (comprate «da Ramirez, il negozio esiste ancora»), l'anello con una pietra rossa e la scritta United States Army («venticinquemila lire, era oro basso, oro americano»: Pino li comprava da uno steward dell'Alitalia e li rivendeva a cinquanta). Scarpe e anello Pelosi li rivorrebbe, perché non glieli rendono? Rivede gli occhiali di Pasolini: «Assomigliano a quelli del cantante... quello napoletano che canta ancora... De Crescenzo... Sono comunque occhiali classici di quegli anni... ancora stanno in auge». A 50 anni Pelosi, dice la Torre, appartiene al passato. È un dinosauro. Perché le borgate sono cambiate? «Sì e no. Il Tiburtino per esempio è ancora molto simile a com'era. Oggi c'è molta più droga. La modernità - i consumi estremi, la tv di Costantino e dei tronisti - ha accelerato i tempi. Le donne non si prostituiscono più, sono le extracomunitarie e fare il mestiere. Anche i ragazzi che si vendono sono spesso romeni. Ma certi riti rimangono: i soprannomi, la smania di raccontare tutto». In un misto di consapevolezza e di disperata, inconsapevole vitalità. È per questo che Pelosi racconta che un amico di borgata, il Barbiere, gli ha detto: «Vedi che 'sto Pasolini ha fatto la tua fortuna». «Sapessi che fortuna», risponde lui. «Embè, senza di lui che saresti? Un disgraziato». «E ora che cosa sono? Un disgraziato. Che cosa sarei io senza di lui? Ho perso la mia vita ma almeno resterò nella storia». * * * Il colonnello Garofano dei Ris: "Va riaperto il caso Pasolini" "Il sole 24 ore", 12 luglio 2008 Il caso di Pier Paolo Paosolini, trovato martoriato all'idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975, va riaperto. Ne è convinto il colonnello del Ris di Parma Luciano Garofano secondo il quale le nuove tecnologie a disposizione possono consentire "di acquisire le informazioni necessarie a ricostruire finalmente la dinamica del delitto", facendo sì che il caso non possa considerarsi chiuso. Le sue convinzioni, il capo del Ris di Parma, le mette nero su bianco nell'ultimo volume, edito da Rizzoli, Delitti e misteri del passato, scritto insieme a Giorgio Gruppioni e Silvano Vinceti. Spiega il colonnello Garofano che la prova del Dna e la tecnica del Bpa, utilizzata anche per il caso Cogne, potrebbero essere "valide per rileggere le modalità" del delitto avvenuto oltre trent'anni fa. A modo di vedere di Garofano "l'analisi del Dna si potrebbe effettuare su molti reperti". Perché alcuni di essi, denuncia il capo del Ris, "non sono mai stati sufficientemente presi in considerazione". Tante, infatti, secondo l'investigatore-autore di altri due volumi che ricostruiscono i delitti d'Italia che hanno fatto notizia, le «falle del percorso indiziario». Si parte dall'auto sulla quale viene trovato Pino Pelosi, "Pino la rana" il 17enne accusato di avere assassinato lo scrittore-poeta. Ebbene, secondo Garofano "l'auto è stata conservata in un modo quantomeno discutibile, né sembrano essere stati fatti rilievi all'interno circa la presenza di impronte digitali o altre tracce biologiche di interesse"; "nessuno poi - scrive ancora il capo del Ris - ha fatto rilevamenti sul pullover verde né sul plantare, dal quale oggi potremmo ottenere materiale biologico sufficiente a una prova del Dna, né sul bastone o sulla tavoletta e nemmeno sull'anello di cui Pelosi rivendichava la proprietà". L'altra tecnica che potrebbe consentire di riaprire il caso è quella della Bpa, che consente lo studio della distribuzione e delle caratteristiche morfologiche delle macchie di sangue. "La disponibilità degli abiti di Pasolini, ma soprattutto di quelli di Pelosi - dice Garofano - ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulle modalità dell'aggressione. Dallo studio delle macchie di sangue ancora presenti, si potrebbe infatti stabilire (e magari confermare) la tipologia di armi usate per colpire, le posizioni reciproche dell'omicida e della vittima e riscontrare l'attendibilità della versione fornita da Pelosi". Insomma, per il comandante del raggruppamento investigazioni scientifiche, ci sono "una serie di piste non battute, una montagna di reperti ignorati, una tardiva quanto sconvolgente dichiarazione di innocenza del reo confesso" che costituiscono gli ingredienti giusti per raccogliere la sfida e per dire che "il caso non può essere considerato chiuso". "Il sole 24 ore", 12 luglio 2008 Riaprire il caso Pasolini? Ne è convinto anche l'avvocato penalista Nino Marazzita, che è stato parte civile nel processo per l'assassinio dello scrittore-poeta, e che si dice "pronto" a richiedere nuovamente la riapertura del caso. Intanto, proprio per fare luce sul caso, l'avvocato sta preparando un docu-film che sarà pronto in autunno. "La verità è a portata di mano, basta solo la volontà di trovarla", dichiara. Sulla stessa lunghezza d'onda del colonnello del Ris di Parma Luciano Garofano che ritiene che oggi le tecniche consentano di riaprire il caso, Marazzita ricorda come ci siano tanti referti "in buono stato di conservazione" che permetterebbero di eseguire la prova del Dna. "Al museo criminale di Roma si trovano ancora conservati, in buono stato, la camicia con cui Pierpaolo si pulì la testa sanguinante. E ci sono ancora la patente, gli occhiali da cui non si separava mai e un pullover verde che non apparteneva né a lui, né a Pelosi". Tutto materiale che, come riferisce Marazzita, è stato utilizzato per un documentario che lo stesso penalista, insieme ad alcuni collaboratori, sta realizzando per contribuire a fare luce sul delitto avvenuto più di trent'anni fa. "Stiamo ricostruendo la dinamica del delitto sulla scia della sentenza di primo grado. Vogliamo fare capire a tutti - afferma ancora il penalista - che la ricerca della verità è a portata di mano. E poi - registra ancora - l'ultima chiusura delle indagini sul delitto Pasolini è avvenuta senza repertare i referti. Perché si è voluta mettere una pietra tombale su questo caso? Nella vicenda Moro capisco i grandi paletti insormontabili, ma sul caso Pasolini perché questa rimozione collettiva?", si chiede Marazzita. Che, appena avrà terminato il documentario, è pronto a chiedere la riapertura del caso. E sarà la sesta volta. Pelosi: "Pasolini morto per un complotto" «La prima volta che lo vidi fu al chiosco di Piazza dei Cinquecento. Fu lui ad avvicinarmi, io non sapevo chi fosse. Scese dalla macchina, entrò nel bar, mi offrì qualcosa da bere. Che si trattava di Pasolini me lo dissero soltanto dopo gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. Ma lo sai che quello è uno famoso - mi dissero - lo sai che con quello se possono fa' 'n sacco de soldi?». L'idea di tendere allo scrittore un tranello nacque così, dieci giorni prima della mattanza, l'assassinio all'Idroscalo di Ostia la notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975. Inizia così il racconto di un complotto finito nel sangue. L'ennesimo pezzo di verità rivelata goccia a goccia, visto il numero di confessioni, ritrattazioni, dettagli, precisazioni, erogati gratis e più spesso a pagamento. Un complotto con un solo colpevole: Pino Pelosi. Stavolta però Pino, detto "la rana", ormai 50enne, sembra aver imboccato il percorso finale. Ha un lavoro, una situazione affettiva stabile, un tetto. E lui stesso vuole vederci chiaro sulla notte che cambiò la sua vita: «Capii che i fratelli Borsellino stavano tramando qualcosa ma non volli partecipare. "Voi fate come ve pare, non ne vojo sape' niente", gli dissi». Pelosi è andato di recente a trovare la madre dei due fratelli. È tornato insomma sui luoghi della sua infanzia. Vuole scrivere un altro libro, il primo ("L'Angelo nero") lo scrisse diversi anni fa ed è una sorta di autobiografia. Pino ha raccontato la sua versione "definitiva" in presenza di un avvocato romano dopo aver ricostruito fatti accaduti 33 anni fa. Ha incontrato gli amici di ieri, quelli cresciuti all'ombra di palazzoni dell'Ina Casa. Rovistato nei suoi vent'anni di corrispondenze carcerarie, illuminato le zone d'ombra. «La linea difensiva, l'idea di prendermi tutta la colpa, fu del mio avvocato di allora Rocco Mangia. Mi disse che ero minorenne e così sarei riuscito a ottenere una pena ridotta. Se c'era qualcos'altro dietro, io non lo so. Così come non so chi mi raggiunse all'Idroscalo». La verità è una parola che nel caso-Pasolini si può pronunciare solo col beneficio d'inventario. Al massimo ci si può avvicinare prendendo per buone le ultime parole di Pino, quelle alle quali si può dare un preciso riscontro. La notte dell'omicidio non era solo, come si scrisse chiaramente nella sentenza di primo grado del Tribunale dei minorenni di Roma presieduto da Alfredo Carlo Moro, il fratello del presidente della Dc, e come lui stesso rivelò per la prima volta in tv a Franca Leosini. Fu seguito prima al ristorante "Biondo Tevere", dalle parti della Basilica di San Paolo, e poi all'Idroscalo da una motocicletta e infine raggiunto da una macchina blu (qualcuno parlò di una 1100 targata Catania). Dopo essere salito a bordo dell'Alfa 2000 Gt metallizzata di Pasolini si fece riaccompagnare per dare agli amici la chiave della sua 850 coupé. Un'auto ovviamente rubata e alla quale era stata cambiata la targa. «Con Pasolini ci dovevamo vedere già la sera prima ma lui passò in Piazza dei Cinquecento, abbassò il finestrino e mi disse che non poteva, che ci saremmo visti il giorno dopo». Tra gli amici di Pelosi, alcuni, come Claudio Seminara, Adolfo De Stefanis e Salvatore Deidda, risultarono del tutto estranei all'aggressione. Oggi hanno messo su famiglia, hanno vite del tutto normali e tornano malvolentieri a parlare di quella dannatissima notte che sfiorò le loro esistenze. Altri non ci sono più, inghiottiti dalla droga e dall'Aids, come i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, che già a quei tempi facevano uso di anfetamine e stimolanti. Oppure sono in carcere come Giuseppe Mastini, detto Johnny lo Zingaro, che sta scontando l'ergastolo. Tutti e tre, i due fratelli e Johnny, furono coinvolti nell'omicidio di Pasolini per essersene vantati in presenza di orecchie indiscrete. Un modo per accampare benerenze negli ambienti della malavita. I primi due, che all'epoca avevano 15 e 16 anni, confessarono il presunto delitto a un infiltrato dei carabinieri per convincerlo a recrutarli in un sequestro di persona. Finirono in carcere ma poi ritrattarono e tornarono liberi. In pratica si credette a loro e non al carabiniere, uno dei tanti misteri di un'inchiesta piena di buchi come ha documentato Marco Tullio Giordana nel film "Un delitto italiano". Johnny, che sta scontando due omicidi ed è già evaso tre volte, una delle quali dall'isola di Pianosa, è l'unico ancora in vita. Conobbe Pelosi nel carcere minorile di Casal di Marmo. Pino ha lo ha sempre scagionato, «lui non c'era, come devo ripeterlo?». L'omicidio di una baby gang? Delitto politico premeditato? Le parole di Pelosi aprono nuovi scenari. Nei giorni trascorsi tra il primo incontro e l'ultimo con Pasolini sarebbe stato organizzato il complotto. Pelosi avrebbe fatto (involontariamente, lui dice) da esca. Va da sé che nell'ambiente delle borgate e delle periferie, e dunque del Tiburtino, all'epoca si poteva trovare di tutto. Il clima politico era incandescente. Il punto di incontro era una bisca camuffata da circolo monarchico. Le sedi di zona dell'Msi venivano attaccate a colpi di caterpillar. Gli studenti di destra e di sinistra cadevano colpiti a morte per le strade di Roma. E le verità scomode di Pasolini, intento a scrivere "Petrolio", stavano sullo stomaco a molti. Per far luce sulla morte dello scrittore il Comune di Roma, in occasione del trentennale, dunque tre anni fa, si costituì "parte offesa" chiedendo la riapertura delle indagini. L'ex procuratore Italo Ormanni sentì Pelosi. Tutto finì lì. E nessuno in tutti questi anni ha pensato di effettuare nuove indagini sui corpi del reato custoditi in uno scatolone al Museo criminologico di Roma. La tavoletta di legno che servì per colpire il poeta, gli occhiali, l'anello, il pettinino, e soprattutto il plantare: repertati senza alcuna protezione, maneggiati e rimaneggiati. Un mistero che sin dall'inizio doveva rimanere un mistero. * * * Morte di Pasolini di Carla Benedetti "Il primo amore", 24 luglio 2008 Perché il processo non viene riaperto? Un anno fa abbiamo consegnato al Presidente della Repubblica l'appello per la riapertura del processo Pasolini diffuso dal "Primo amore" e firmato da un migliaio di persone in Italia e all'estero. La lunga lista delle adesioni riempiva sei pagine fitte del primo numero della rivista. Ma da allora niente ancora si è mosso. Ora nuove notizie appaiono sui giornali (Pelosi già conosceva e frequentava Pasolini prima della notte del suo omicidio, come si legge in un articolo del "Messaggero") che rendono ancora più evidente come la versione ufficiale e "blindata" che finora è circolata, rissa omosessuale tra due persone, non stia in piedi, e fosse solo una copertura servita a sviare le indagini e a coprire un altro tipo di delitto. Perciò ancora una volta [...] speriamo che il Presidente della Repubblica voglia farsi carico di questa urgenza di verità sentita da tanti cittadini e da molte voci della cultura italiana e internazionale. [di seguito Carla Benedetti ripropone l'articolo di "Micromega" del 2005 di Carlo Lucarelli e Gianni Borgna, già in "Pagine corsare"] APPELLO PASOLINI - LE ADESIONI
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