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Saggistica Pasolini leghista? Pura strumentalizzazione Fa sorridere un articolo del "Giornale", uscito il 30 luglio, che incensa Pasolini come leghista. Fa sorridere perché non solo suona ridicolo, ma anche perché ci ricorda che qualsiasi intellettuale politico italiano, da destra a sinistra, negli anni post mortem è stato strumentalizzato. Vedi, tanto per dirne uno, alla voce Indro Montanelli. Che l'apprezzamento nei confronti di un intellettuale sia doveroso da parte di tutti gli schieramenti, è fuor di dubbio. Ma che qualsiasi frase di un personaggio, post mortem (quindi senza possibilità di replica), venga strumentalizzata per i propri scopi politici, non solo è sbagliato, ma è totalmente scorretto. Un Pasolini "leghista ante litteram" fa sorridere anche perché si basa su un'analisi totalmente superficiale della lingua pasoliniana. L'attribuita inclinazione verso un presunto leghismo dell'intellettuale era già nata nel 1993, quando Roberto Maroni, basandosi su un saggio di un giovanissimo Pasolini (1947), ritenne che il poeta di origine friulana tendesse a un federalismo che ridesse dignità e sfruttasse "il patrimonio di coscienza che ogni Regione coincidente con una propria civiltà possiede". Forte anche della dichiarazione che la scelta di utilizzare il dialetto servisse a rendere la purezza rustica e cristiana di quel sistema linguistico: "Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà" (Dialetto e poesia popolare, 1951). Ma in Pasolini la scelta di utilizzare il dialetto nella sua opera letteraria rimandava pure ad un artificio stilistico. Si trattava più di una scelta stilistica che ideologica, più di un modo per rendere maggiormente un personaggio attraverso quella voce, piuttosto che una scelta di tipo "realista-ottocentesca" alla Verga, come ci dice chiaramente - e in tempi non sospetti - Gianfranco Contini: «Il dialetto di Pasolini ha già in quanto materia il fascino dell'inedito, configurando quell'ideale di lingua vergine che per esempio nel 1889 animava nel tedesco Stefan George (1868-1933) gli esperimenti poetici in una "lingua romana" di sua invenzione, e poco dopo nel nostro Pascoli i concetti d'una : "Lingua che più non si sa" e d'una "Lingua morta" da recuperare" [...]». (Gianfranco Contini, La letteratura italiana, Firenze-Milano, Sansoni Accademia, 1974). È, insomma, quella pasoliniana, non tanto un calco della lingua reale, quanto una lingua di tipo sperimentale. E in merito al friulano, annosa questione tanto cara alla Lega Nord, lingua sentimentalmente importante per il poeta figlio di una casarsese, egli è, sempre secondo Contini, incline a «esperire squisite variazioni in vernacoli di singole località, sempre sullo sfondo di un dialetto non identico al friulano "ufficiale"». Non c'è quindi nei suoi testi un intento filologico di recupero della varietà linguistica "reale", ma un uso della lingua teso allo sperimentalismo. Nel rispetto, è ovvio, delle tradizioni linguistiche locali: come fa intendere PPP nella conferenza oggi contenuta nel Volgar'eloquio, tenutasi nel 1974 a Lecce e portata a esempio del "leghismo pasoliniano ante litteram" dal Giornale, quando affermò l'importanza del dialetto non come folclore, ma come identità culturale. Nella stessa sede l'intellettuale afferma però che la pretesa di un recupero del dialetto sia una specie di "museificazione" dello stesso, un recupero forzato, come fa notare il filosofo Pier Aldo Rovatti in un recente editoriale ne "Il Piccolo" (14 agosto 2009), quotidiano di Trieste. E dimostra di non avere una risposta univoca a un problema tanto complesso e sentito ancora oggi. Prima di estrapolare, insomma, concetti che poi si rivelano totalmente estranei alla poetica e al pensiero di un autore, è necessario che un esponente politico - o un giornalista, ovviamente - si legga qualche pagina di letteratura e ne abbia una visione critica. O che quantomeno ne legga una voce critica, che si distacchi il più possibile dal periodo contingente e dagli interessi del momento.
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