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L'Italia dei coccodrilli
Coro di consensi postumi in morte di Pasolini. Ma chi trent'anni fa ha tirato le pietre farebbe bene a interrompere la melassa di Stato con spot di silenzio
di Lidia Ravera, 4 novembre 2005

Le celebrazioni sono il trionfo del falso, si sa. E si sa che nel nostro paese godono di buona stampa soltanto i morti. Ma la festa mediatica per il trentesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini ha portato al diapason il coro dei consensi postumi. L’effetto è sinistro.

Pasolini è stato comunista ed è stato scacciato dai comunisti perché la sua vita privata non seguiva il modello conformista previsto dall’epoca.

È stato profondamente cristiano e considerato assolutamente blasfemo.

È stato un contestatore contestato dai contestatori perché li contestava (li guardava, cercava di vederli per ciò che rischiavano di diventare, li metteva in guardia).

È stato un animale raro nel bestiario degli intellettuali italiani: uno che davvero si permetteva di non aderire a nessuno schieramento, di non tapparsi mai il naso, di manifestare sempre, qualunque fossero le conseguenze, la sua opinione, eccentri ca, sofferta, onesta, coraggiosa.

Certe volte esagerava, ma perché pretendeva da se stesso e dagli altri una costante tensione di ricerca. Aveva bisogno di verità e la verità è difficile da maneggiare. È sfuggente. Inafferrabile.

I suoi romanzi erano mondi, i suoi film visioni, le sue poesie saggi in versi liberi, illuminazioni sociologiche.

Erano in pochi a leggerle. Erano in pochi ad amare i suoi santi stralunati, il suo vangelo sottoproletario. Erano in pochi a non aver paura della musica brusca e intransigente dei suoi interventi pubblici. Erano in molti a odiare la sua libertà di pensiero e di comportamento, la solenne imprudenza con cui trasgrediva i codici di una società ipocrita e sessista.

Erano in molti a odiare Pier Paolo Pasolini. È quell’odio il brodo di coltura in cui si sono sviluppati gli agenti patogeni che l’hanno ucciso. L’esca è stato certamente uno di quei ragazzini dall’ebete innocenza, uno di quei fogli bianchi su cui gli piaceva scrivere le sue storie, ma gli assassini erano il braccio armato di quell’Italia fascista, che allora stava fuori dall’arco costituzionale, e adesso sta al governo.

Sarebbe giusto non dimenticarlo.

I festeggiamenti, la melassa di Stato, andrebbero interrotti, almeno ogni tanto, da qualche spot di pensoso silenzio, in cui chi ha tirato le pietre non nasconda, a distanza di trent’anni, la mano. E alla fine dell’orgia celebrativa, se resta ancora un po’ di energia, se qualcuno decide di esercitare anche un po’ di rispetto per il Pasolini vero, non soltanto per “Il Poeta Morto”, si potrebbe cercare di far luce sul delitto, uno dei tanti (troppi) misteri italiani. 

 


L'Italia dei coccodrilli, di Lidia Ravera, Aprile on line
 

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