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La narrativa Giuseppe Pesce Il libello edito nel '75, ristampato da Einaudi nel 1993, giace sonnolento sugli scaffali delle librerie. A parte i primi due canti dell'Inferno contiene solo appunti e frammenti. Non versi le prevedibili terzine, ma prosa. Carmen solutum in realtà, una narrazione che dischiude ogni momento squarci di poesia. Pasolini sceglie come Virgilio il se stesso degli anni Cinquanta - "piccolo poeta civile che ingiallisce con i suoi libri" - e lasciate le tre fiere comincia il suo viaggio in un Inferno neocapitalistico. È un nonluogo in cui tutto è possibile, dove più forte è la paura, o forse solo la coscienza amara della vita destinata a finire: "il senso di un addio dato alle cose prima ancora di averle conosciute, una infernale nostalgia di ciò che appena si ha". Magari è proprio così, è solo una visita al mondo questa vita, eppure vive in qualcuno un coraggioso amore, la cieca testardaggine della poesia. I passi raggiungono un prato pieno di innumerevoli fiori, increduli a morire, destinati a una vita di pochi giorni. "Fiorucci in cui c era solo la lietezza, condivisa tra mille e mille piccoli fratelli assetati di sole". Poi viene un pensiero e basta da solo: sono gli stessi, quei fiori, delle altre primavere - come un ricordo, un sogno - per cui il passato si confonde con il presente, "e un prato è qui, e insieme nel cosmo". Siamo ad un pensiero senza ragioni: l'appartenenza al cosmo vive negli uomini come una memoria antica. "Ogni atto della vita non è che un segmento già segnato in una linea che è la vita stessa, chiara solo nel sogno". Ed è un sogno - un incubo - questo viaggio, camminare per le autostrade deserte del nuovo capitalismo - quelle di Uccellacci e uccellini - fino ad un piazzale di asfalto, parcheggio sconfinato senza una macchina, perduto nella penombra. Incontrare le demonie dagli occhi carichi di una luce nera e nemica. Aspettare che si radunino come dal nulla, una grande folla informe. Sono i conformisti, coloro che peccarono di normalità, quelli che in vita non ebbero il coraggio di fare gli Orlandi e i Donchisciotti: "le masse, che hanno eletto a loro religione il non averne", che ripetendo gli altri hanno pensato, chiusi nella loro ottusa meschinità, solo a non essere piccoli, inferiori, ultimi. E la fine, la notte scende all improvviso come un temporale. Restano solo pochi frammenti, e un degno congedo: "Sono passato, così, come un vento dietro gli ultimi muri o prati della città - o come un barbaro disceso per distruggere, e che ha finito col distrarsi a guardare, e a baciare, qualcuno che gli assomigliava - prima di decidersi a tornarsene via". Nel tempo, oltre il tempo. Se Dante è stato il primo, Pasolini è l'ultimo poeta civile italiano. Hanno attentato con lui alla stessa poesia. Fascisti, borghesi, democristiani: non una generazione, ma a volte sembra che un'intera società abbia scelto di rinunciare alla coscienza critica. Sono piccoli, miseri e ignoranti, e non sanno che, per fortuna, la poesia non si può uccidere. Almeno fino a quando continueremo a leggere, e scriveremo ancora. Certo, per Pasolini resta l'amaro, un senso nero e cupo. Perché l'Italia ha perso un poeta, come diceva Moravia commosso, e di poeti non ce ne sono tanti, ne nascono due o tre in un secolo. . |
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