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Vedi anche: tutti gli aggiornamenti di "Pagine corsare" da ottobre 1998 
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"Pagine corsare"
Libri

Improvviso il Novecento.
Pasolini professore
Pasolini nei ricordi dei suoi studenti:
un professore che ha lasciato il segno
di Giordano Meacci
Ed. Minimum fax, 2000

[pagine 11-18 del libro]


A lungo davanti al palazzo in mattoni rossi di via Pignatelli 21 è rimasto un giorno di pioggia. Un pomeriggio di domenica che mi sorprese, fradicio, a specchiarmi nel vetro del portone.

Anche adesso, mentre guardo la facciata in pieno sole, rimane nitida nella memoria la stessa curiosa sensazione di inadeguatezza che provai nel vedere il mio viso riflesso. 

Si tratta di uno di quei ricordi che si depositano dentro di noi per caso. Alle volte aspettano anni, nascosti da altre urgenze, apprestando con pazienza il loro ritorno. Poi all’improvviso riappaiono, a stupirti con la loro irragionevole, obiettiva linearità. L’avvicinarmi all’entrata del palazzo mi ha regalato l’immagine di me stesso con quindici anni di meno; beccato dall’acqua al ritorno dalla partitella con i compagni delle elementari.

Al posto di questo palazzo, negli anni Cinquanta, c’era un villino a due piani. La casa dei coniugi Anna e Gennaro Bolotta. Per circa dieci anni, tra la fine della guerra e “i fatti d’Ungheria”, anche l’unica scuola media di Ciampino. L’entrata della “Francesco Petrarca” – questo era il nome della scuola – è stata sostituita da due negozi (di alimentari e di biancheria intima, partendo da sinistra); il giardino della casa non esiste più: c’è un altro palazzo, grigio, confinante con il campo sportivo.

Alla scuola privata dei Bolotta ha insegnato, dal dicembre del 1951 alla fine del 1954, Pier Paolo Pasolini.

Della vita artistica di Pier Paolo Pasolini nel corso di questi tre anni si conosce ormai tutto. La scoperta di Roma, le prime collaborazioni cinematografiche, le amicizie letterarie, l’attività di saggista, l’incessante scrittura poetica, la stesura del primo romanzo. Molto meno si sa della sua quotidiana attività di insegnante, dalle sette di mattina alle tre del pomeriggio, nella scuola privata di Ciampino. Ne parla lui stesso alcune volte nelle lettere, a Gianfranco Contini, a Giacinto Spagnoletti, a Biagio Marin. A Livio Garzanti, al tempo di Ragazzi di vita. E si capisce, leggendole, che se da un lato era molto soddisfatto delle possibilità espressive che l’insegnamento gli offriva, dall’altro – soprattutto col passare del tempo – i continui spostamenti (da Ponte Mammolo prima, da Monteverde poi) e i condizionamenti imposti dal lavoro giornaliero alla sua attività letteraria lo affaticavano e lo infastidivano. La lettera a Giacinto Spagnoletti del gennaio 1952 è significativa: «Purtroppo devo limitarmi a un rachitico biglietto, perché è sera e
sono esausto; e non so quando potrò scriverti di più. Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegnante, a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia) torno alle 15, mangio e poi ho l’Antologia per Guanda...». 

Anche in un’altra lettera, scritta due anni dopo a Biagio Marin, il 1° settembre del 1954, si colgono delle osservazioni molto chiare: «Andare su e giù a Ciampino, per 25.000 lire al mese, come faccio, è una cosa insopportabile. Eppure la sopporto...».

Tracce di Ciampino si trovano nelle poesie dei primi anni Cinquanta. È più che altro un nome tra i nomi nella lunga carrellata di immagini che partono dalle borgate e arrivano fino ai “quadri” della campagna romana. Le poche case intorno all’aeroporto – questo è ancora Ciampino, quando Pasolini vi arriva – si perdono nelle terzine del primo periodo, in quelle corse verso il meridione che seguono le linee dell’“Appennino”.

Alla vita ciampinese di Pier Paolo Pasolini i biografi hanno il più delle volte solo accennato; tanto che anche i più accorti tendono a confondere la stretta, discreta via Principessa Pignatelli con la più nota – e lontana – Appia Pignatelli. Allo stesso modo, nelle biografie variano (alle volte con differenze rilevanti) le date d’inizio e di fine dell’esperienza alla Petrarca. Ancora di recente Giacinto Spagnoletti, nel suo L’“impura” giovinezza di Pasolini (1998), la storia “critica”
dell’amicizia con il poeta tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, segnala, a proposito dell’insegnamento a Ciampino: «Purtroppo non molti biografi hanno saputo descrivere con i dovuti particolari quest’oscuro periodo della vita di Pasolini».

Eppure la Ciampino del primo dopoguerra, coi suoi campi sterrati, la parvenza borghese della città-giardino inghiottita dai vigneti, gli sfollati in attesa di una casa, compendia bene quel momento di passaggio dall’arcaicità del mondo contadino alla colonizzazione neocapitalistica che Pasolini ha rappresentato
nei suoi scritti. La stessa distanza da Roma, negli anni Cinquanta, è tale da relegare il paese in una zona franca di “provincia periferica”. Ricostruire la vita di quel periodo in un piccolo centro significa anche raccontare il “ti con zero” di una fase che avrebbe portato al crollo dell’“Italia contadina e preindustriale”
(«È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango», scriverà Pasolini a Calvino nel 1974).

Da queste premesse è nata la necessità di raccontare l’esperienza ciampinese di Pasolini attraverso le testimonianze dei suoi allievi di allora. Registrare le loro voci e riproporle così, semplicemente, senza aggiungere nulla di più di quello
che essi ricordavano, non mi è parsa – da subito – la soluzione più giusta. Per il semplice motivo che si rischiava di attribuire un valore “assoluto” alle loro dichiarazioni; privilegiandone magari l’aspetto documentaristico, ma rendendole
necessariamente asettiche, davvero lontane e prive di qualsiasi legame con la biografia artistica di Pier Paolo Pasolini.

Ho voluto correre il rischio opposto, preferendo il racconto alla catalogazione. Mi è sembrato più corretto ritrarli nel presente della loro vita di ex allievi, raccogliendo tutte le testimonianze in un vero e proprio diario di viaggio. Una raccolta di appunti nella quale i ricordi degli studenti della Petrarca si fondono con i testi del loro antico professore.

Tutto quello che mi veniva raccontato mi riconduceva, immancabilmente, a un luogo della scrittura, a una serie di versi, a una catena di fotogrammi che in qualche modo completavano e dilatavano la narrazione oggettiva.

Ascoltare i ricordi degli allievi di Pasolini è stato anche un modo per ritrovare il senso dei “primi anni”. Cercare di capire quale sia la funzione di un maestro. Per quel che ne sappiamo, Socrate potrebbe essere stato un personaggio letterario come Sherlock Holmes o Stephen Dedalus. Nato dalla necessità di Platone di avvalorare le sue tesi attraverso i dialoghi e di creare l’“idea” del maestro per tutta la cultura occidentale a venire.

In Comizi d’amore (1963), Pier Paolo Pasolini, prima di iniziare la sua inchiesta sulla «sessualità degli italiani», si affida alle «autorità di Cesare Musatti e di Alberto Moravia», chiedendo loro un’opinione sul valore della sua ricerca. Allo
stesso modo, nel corso del film, Pasolini unisce alle interviste delle persone incontrate in giro per l’Italia (da Milano a Napoli all’entroterra calabrese), altri interventi degli stessi Moravia e Musatti insieme con i commenti di Giuseppe
Ungaretti, di Oriana Fallaci, di Camilla Cederna. Cerca, in sostanza, di offrire una visione il più possibile ampia e variegata della realtà che descrive.

Già prima di iniziare il mio viaggio verso Pier Paolo Pasolini e l’Italia degli anni Cinquanta, prima di raccontare le storie degli allievi della Petrarca, mi sono voluto creare, confortato dal precedente pasoliniano, un percorso privato attraverso il Novecento che potesse aiutarmi a interpretare meglio il materiale che andavo raccogliendo. Ed è per questo che mi è sembrato necessario tornare indietro nel tempo (e nello spazio: passando da New York a
Roma e a Ciampino) fino alla giovinezza di Pasolini a Casarsa. Perché se da un lato mi si offriva la possibilità di mettere a fuoco alcuni aspetti particolari della biografia di Pier Paolo Pasolini, dall’altro questi stessi aspetti si legavano
a filo doppio alla mia personale vicenda formativa e alla scoperta del mio Pasolini.

Ed è per questo che ho cercato di unire al rigore ricostruttivo la necessità dell’improvvisazione, approfittando delle suggestioni che mi arrivavano in corso d’opera. Ne è nato una Bildungschrift mediata dalla mia visione soggettiva, che si muove attorno alla “formazione” di Pasolini e, contemporaneamente, a quella degli studenti della Petrarca.

Fernanda Pivano – partendo da un incontro con Pasolini – mi ha dato un’interpretazione del rapporto tra la cultura del dissenso statunitense e quella dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Ho chiesto a Luca Serianni di parlarmi della lingua letteraria di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, e ho pensato di fermarmi a riflettere con Sandro Veronesi sulla lezione artistica di Pasolini. Con Attilio Bertolucci ho parlato della Roma dell’immediato dopoguerra e del suo dialogo in versi «con Pier Paolo». Insieme alle loro testimonianze “esterne”, le parole degli allievi; fino a quel vero e proprio diario di viaggio che ho
tenuto in Friuli, nel corso della mia scoperta di Casarsa.

Tutto il racconto è preceduto da un dialogo a posteriori con Vincenzo Cerami, che nella sua doppia dimensione di scrittore e di ex alunno è un vero e proprio legame tra i due mondi raccontati. Fondere insieme due mondi diversi mi è
sembrata la soluzione più vicina al modello di Comizi d’amore

Anche alla luce di una riflessione di Barth David Schwartz sulla visione del mondo di Pasolini, quando descrive l’ironia dei “circoli culturali della capitale”:
Dimenticavano – o non riuscivano a comprendere – che era innanzitutto un democratico, un naturale egalitario aristocratico. Come avrebbero potuto – così profondamente consapevoli della posizione sociale, spesso e volentieri arrivisti snob – comprendere che il modo in cui trattava i potenti e le celebrità era lo stesso in cui trattava Ninetto e i Citti?

Sarà a questo punto il caso di spiegare perché la scelta dei compagni di strada non è stata casuale.

Mio padre è arrivato a Roma nel ’54. Aveva dodici anni. È stato – come tanti altri assieme a lui – un inurbato del primo dopoguerra. Per scelta, è vero: fu mio nonno a volerlo. Ma non ha certo influito, nella storia di mio padre, questa differenza di cause rispetto agli immigrati “per necessità”. Nel giro di pochi giorni le colline senesi della sua infanzia si sono trasformate nei montarozzi di sabbia dei cantieri di Ponte Bianco.

Mia madre ha sposato mio padre a diciassette anni. Ha lasciato le sue, di colline, quelle che nascono a Chiusi e corrono verso l’Umbria, ed è venuta a vivere a Roma con lui.

Io sono nato a Roma, nel 1971. Ho vissuto un’infanzia spezzettata tra i boschi dell’Umbria e della Toscana, le estati cittadine di Monteverde nuovo, l’asfalto spianato da poco delle nuove strade di Ciampino.

Ho conosciuto Pasolini attraverso i suoi libri e i suoi film. Quando ho cominciato a pensare a questo libro, al tentativo di ricostruire un breve periodo della vita di Pier Paolo Pasolini e di Ciampino, mi sono subito reso conto che – lo volessi o no – ero costretto a ripercorrere a ritroso il Novecento fino a trovare la guerra; e un mondo diverso dal mio.

Abbandonata dall’inizio qualsiasi pretesa di completezza, mi sono accorto che l’unica strada da percorrere era quella privata, salvando le mie memorie insieme con quelle delle persone che incontravo.

Questo libro, un diario di viaggio che va dal febbraio al novembre del 1997, è ben presto diventato ai miei occhi, paradossalmente, oggettivo. Usando le parole dell’Hemingway di Verdi colline d’Africa (tradotte da Attilio Bertolucci): «L’autore
ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una regione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un’opera di fantasia». Si tratta soltanto di sostituire nazione a regione e
anno a mese (e di non aspettarsi Hemingway, ovviamente).

Se si guarda bene, all’interno di questo “scritto di formazione” trovano posto (e sia chiaro che si tratta di debiti dichiarati per amore di verità, non di pretese corrispondenze) oltre all’opera di Pier Paolo Pasolini, La lepre di Vincenzo Cerami, i libri di Fernanda Pivano, le Aritmie di Bertolucci, Occhio per occhio di Sandro Veronesi, la lezione storico-linguistica di Luca Serianni (soltanto per ricordare il perché di un viaggio comune). Ma anche i Cuentos di Osvaldo Soriano, i Viaggi di Moravia, il Diario d’Irlanda di Heinrich Böll, Festa mobile
di Hemingway, i Racconti di Carver. E tutti gli altri libri, le improvvisazioni di Novecento filtrate dalla figura di Pasolini, attraverso i quali ho cercato di leggere la realtà che vivevo – forse anche senza accorgermene – nel momento in cui scoprivo le tracce del “già detto” e le usavo per interpretare il presente. Con quello stesso stupore compiaciuto di quando ritrovai per caso il gesto di mia nonna che si “riavviva” i capelli in un personaggio involontario (l’avevano ripresa senza che se ne accorgesse) di Straziami ma di baci saziami.

 


Improvviso il Novecento. Pasolini professore, di Giordano Meacci
 

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