"Pagine corsare"
Saggistica
L'Antiburattinaio
Pasolini e le ragioni del dissenso
di Maria Laura Gargiulo
Da L'antiburattinaio. Pasolini e le ragioni del dissenso presentato qualche tempo fa, pubblico ora un breve estratto del primo capitolo, preceduto da uno stralcio della lettera che l'autrice, Maria Laura Gargiulo, ha ricevuto dal Prof. Giorgio Barberi Squarotti, che ha recentemente letto il libro.
“Le Sue analisi sono fondamentalmente extra-letterarie, che dicono cose vere e incisive su Pasolini morale, pensatore, polemista, libero e autentico all’opposto del conformismo di sempre. Esemplare il capitolo Il linguaggio del Potere […]. (Prof. Giorgio Barberi Squarotti)
L’ARCHETIPO DEL PADRE NELLA FORMAZIONE DI PIER PAOLO PASOLINI
1.1 La vittima e il carnefice
Il percorso evolutivo, umano e intellettuale, di Pier Paolo Pasolini è segnato fin dall’inizio da una visione antitetica dell’autorità. La vita stessa gli ‘impone’ uno schieramento preciso, ovvero un rifiuto netto e sempre più raffinatamente articolato nei confronti di tutto ciò che obbliga, che pretende, che opprime la volontà individuale. La contrapposizione al potere è al centro della sua stessa esistenza, che lo vede fin da piccolo schiacciato dalla presenza castrante del padre. Carlo Alberto Pasolini è infatti un ufficiale fascista, il che è di per sé sufficiente a fargli incarnare un ruolo insopportabile per il piccolo Pier Paolo, dotato di spiccata sensibilità e di un’innata propensione a coltivare la propria individualità [1]. L’autoritarismo del padre è presente nel pubblico come nel privato: alcolista, dedito al gioco d’azzardo, maltratta la madre:
Quelle scenate hanno fatto nascere in me il desiderio di morire […]. È stato l’in- cubo della mia vita. Tutte le sere aspettavo con terrore l’ora della cena sapendo che sarebbero venute le scenate [2].
Il terribile teatro della vittima e del carnefice grava sull’infanzia di Pasolini e gli impone di non rimanere spettatore e di farsi attore. Il bambino allora prende posizione, si schiera con il debole e contro l’oppressore. Non è una contrapposizione ingenua, ma la scelta coraggiosa di non chiudere gli occhi di fronte al dolore, per quanto gli è possibile. Questa scelta si evolve, divenendo la tematica di fondo di una ricerca spirituale e intellettuale che lo porta a guardarsi intorno con quella costante vis polemica di cui egli stesso patirà più volte le conseguenze, fino al tragico epilogo della sua esistenza.
C’è da chiedersi quanto si tratti veramente di una scelta. L’opera di Pasolini sembra tracciare un’autobiografia dello spirito in qualche modo dettata da un fato ineluttabile: «…eravamo grandi nemici, ma la nostra inimicizia faceva parte del destino, era fuori di noi» [3]. La sua ricerca intellettuale chiede una spiegazione a quell’istinto viscerale, incontrollabile, che muove i suoi passi oltre la ragione. E nella tragedia greca trova la negazione di ogni motivo: l’esistenza si muove lungo fili poco sensibili alla volontà umana. L’odio non è una scelta, ma un prezzo inevitabile di quel groviglio di passioni cui la sua sensibilità non gli permette di sottrarsi. È infatti l’amore eccessivo per la madre che alimenta il sentimento di astio nei confronti del padre. La partecipazione alla posizione del debole gli suscita un’incontrollata urgenza di frapporsi al potente. Egli è Pilade [4], l’incarnazione del rifiuto del potere: una scelta morale e al contempo una spinta ingovernabile. I suoi passi sono mossi da passioni, note e nascoste, oltre il limite imposto, per cui Pasolini indossa, per volontà e per costrizione al contempo, l’abito della diversità. Non si può aderire, non ci si può conformare. Occorre sfidare, combattere, in altre parole tradire quell’autorità che, come un demone invincibile, si incarna di volta in volta in una figura specifica, in un personaggio o in una istituzione.
Pasolini è consapevole di questo tradimento, e lo paga prendendo su di sé il peso della colpa:
I figli che non si liberano dalle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi [5].
Se nella tragedia greca cerca le trame del proprio dolore e le radici di passioni sovrastanti, è nella rappresentazione sacra del cristianesimo che anela a una catarsi, all’espiazione della propria struggente umanità [6]. L’espiazione è nella ricerca stessa, scaturita da una profonda sensibilità e fonte a sua volta di una sensibilità comprensiva: l’odio non è cieco, ma accompagnato, stemperato, in ultima analisi lenito da un occhio compassionevole: «Questo del fascismo è un alibi, con cui pure giustifico il mio odio, ingiusto, per quel povero uomo: e devo dire tuttavia ch’è un odio, orrendamente misto a compassione» [7].
La ferita dell’infanzia risveglia i demoni dell’odio, ma come l’intelligenza asservisce i demoni ad aspirazioni di libertà, propria e altrui, così un amore innocente, incontaminato, getta sui demoni una luce diversa, rivelandoli come fantasmi di bisogni perduti. Al padre, Pasolini dedica la raccolta scritta in dialetto friulano Poesie a Casarsa, pubblicata nel ’42 [8]. La seconda parte del- l’opera La Domenica Uliva è un dialogo in versi, scritta in friulano con traduzione dell’autore e mette in luce quello che sarà un aspetto caratteristico della poesia pasoliniana: la predilezione per la prosa dialettica rispetto al ritmo poetico, nella quale Franco Fortini rintraccia «una passionalità nutrita delle apparenze della comunicazione razionale» [9]. Questa peculiarità, che manifesta una costante attenzione all’oralità [10], si affina in una sorta di ‘gusto’ per l’imperfezione [11].
La scelta del dialetto si configura come un gesto di sfida. Il padre, infatti, non aveva alcuna stima per il friulano, in linea con il disprezzo per il dialetto che mostrava il fascismo [12]. La ‘riconciliazione’ non avviene nel territorio del padre, ma in quello del figlio, come se rappresentasse anche una dichiarazione di emancipazione. E, insieme, con il dialetto friulano Pasolini dà voce alla ‘vittima’, alla madre [13], esprimendo un amore più volte dichiarato nelle sue opere: «La sua “presenza” fisica, il suo modo di essere, di parlare, la sua discrezione e la sua dolcezza soggiogarono tutta la mia infanzia» [14]. In questa presenza c’è l’ossimoro di una benedizione che è insieme dannazione. Anche la dolcezza ha un prezzo, anche la bellezza è, in ultima analisi, un vincolo:
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data [15].
In Vangelo secondo Matteo l’idealizzazione della figura materna raggiunge il suo apogeo, con il ruolo della madre Susanna dato alla madre di Cristo [16]. Proprio in quest’opera, tuttavia, l’icona materna è incrinata dalla drammatica necessità della separazione: Gesù rinnega la madre per crescere e per morire. Pasolini rivela dunque come le sue due più grandi passioni, cioè l’amore per la madre e l’odio per il padre, ostacolino il suo desiderio di emancipazione. Solo col distacco dalla madre può esserci una crescita. Solo con il perdono per il padre può esserci pace [17].
L’idealizzazione della madre diviene idealizzazione dell’archetipo femminile, sebbene Pasolini si sia dovuto spesso difendere da accuse di misoginia: «Mettiamo che io veda anche la donna come… un’esclusa» [18]. Egli dipinge la donna come ‘esclusa’, non per relegarla a una posizione sottomessa, ma perché incarni quel ruolo di vittima da cui egli stesso vuole liberarla: «No, tale accusa non è fondata. In realtà, quel che si potrebbe rimproverarmi, non è di disprezzare la donna, bensì di essere propenso a “raffaellizzarla”, ad esprimere il suo lato angelico…» [19]. Il femminile è l’innocenza violata. Riconoscendola, Pasolini riabilita la propria infanzia, e di nuovo prende posizione all’interno del conflitto edipico [20].
1.2 Il sonno e la veglia
La contrapposizione tra il padre e la madre diviene, nell’impegno politico, una contrapposizione tra due classi sociali: la classe borghese (il padre appartiene a una delle più illustri famiglie di Ravenna) e il mondo contadino della madre (maestra elementare, cattolica non praticante) che il padre non apprezzava e che il fascismo rifiutava [21].
In questa contrapposizione, il dialetto è un simbolo ricco di implicazioni semantiche:
… da bambino ero selettivo ed aristocratico linguisticamente: petrarchesco […] Qualcosa come una passione mistica, una sorta di felibrismo, mi spingevano ad impadronirmi di questa vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali che scrivevano in dialetto, in un paese dove l’unità della lingua ufficiale si era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica… […] era per me il massimo dell’ermetismo, dell’oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è successo ciò che non mi aspettavo. La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi però una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani… col passare del tempo avrei imparato man mano a usare il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica [22].
Più tardi lo scenario della tragedia del potere sarà Roma, dove Pasolini si schiererà dalla parte di una Roma reietta, illuminando quella che ancora oggi conosciamo come la «Roma pasoliniana». Così, la sua ricerca linguistica si approprierà anche del dialetto romanesco, strumento per attuare il discorso libero indiretto «attraverso cui vivere realisticamente la vita di personaggi appartenenti a un’altra classe sociale» [23].
E in qualità di strumento della polemica, il linguaggio diviene oggetto di discussione. Nelle mani del potere, il linguaggio perde il fine emancipante della comunicazione e si perverte in strumento di oppressione. Discutere, conoscere il linguaggio, significa per Pasolini esplorare il confine sottile ma cruciale tra oppressione e affrancamento, omologazione e creatività. Pasolini non può usare questo mezzo senza rivendicarne il possesso, e per farlo è costretto a spodestare quell’autorità, rappresentata dall’industria, dal governo, dalla chiesa, da quel linguaggio di cui questi poteri fanno colpevole abuso per assoggettare le masse. A questo «Centro» autoritario Pasolini contrappone una realtà linguistica periferica, il dialetto del mondo contadino e del sottoproletariato. Una realtà a margine al quale Pasolini dà ‘voce’, una voce forte e scomoda per chi vive all’interno del «Palazzo» [24]:
Ho «L’Espresso» in mano […]. Lo guardo, e ne ricevo un’impressione sintetica: «Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov’è, dove vive?» È un’idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: «Essa vive nel Palazzo». […] Solo ciò che avviene «dentro il Palazzo» pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità… [25].
Presto anche il cinema diventa strumento di opposizione che gli permette di rappresentare visibilmente e quindi più ‘realmente’ il mondo dei suoi romanzi. Il linguaggio si incarna in personaggi la cui gestualità simbolica e naturale allude al mondo del sottoproletariato. Moderni Sisifo, intessono con le loro camminate stanche l’intera struttura del film: trascinano i loro passi a ritmo costante verso mete illusorie, lungo un’esistenza disincantata dove tutto si ripete nel ciclo ininterrotto della morte e del dolore, dove la risata è disperazione [26]. In questo universo ferito, privato di ogni possibilità di riscatto economico e sociale, azioni e conseguenze sono indissolubilmente intrecciate: «…de quello che uno è, la colpa è solo sua. Lo sai sì?», dice Mamma Roma (nel film Anna Magnani), e prosegue: «…il male che fai tu per colpa tua è come ‘na strada, do’ ce camminano pure l’altri, quelli che nun ciànno colpa!» [27]. Se il primo aforisma è già una chiara affermazione della responsabilità individuale, nel secondo questa responsabilità si estende senza l’illusorio confine dell’individualità [28]. L’uomo è la storia, il mondo intero.
La presenza del muto, cioè della forza del silenzio, è stratagemma idoneo per l’opposizione al potere. Il silenzio è sia rifiuto della realtà (in Teorema), sia un’alternativa alla lingua omologata del potere. Troviamo dunque personaggi muti angelicati e puri, come Silvana Mangano in La terra vista dalla luna. Oppure, come in Accattone, la forza espressiva del gesto è rafforzata dalla liricità della musica di Bach, a indicare il peso ineluttabile del fato sulle scelte dei personaggi. Alla ‘diversità’ non è permesso scegliere, il fato, fantasma onnipresente del percorso umano e artistico di Pasolini, si accanisce impietoso sugli ‘esclusi’. Il diverso non solo è il negro, il povero, l’omosessuale, ma persino l’intellettuale:
La realtà è questa: che anche l’intellettuale è un reietto, nel senso che il sistema lo relega al di fuori di se stesso, lo cataloga, lo discrimina, gli affibbia un cartello segnaletico onde: o renderlo dannato, o integrarlo. Si sa. Anche se apparentemente un po’ meno sfortunato del «povero negro», l’intellettuale vive in sostanza l’identica esperienza di «diversità» del negro. I due sono fratelli nella segregazione, e nella lotta che devono ingaggiare contro il sistema per «limitare» (altro non possono fare) la sua capacità di «catalogarli e integrarli». […] L’opera di un autore è come la faccia di un negro. È con la sua stessa presenza, con il suo «esserci», che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale. Infatti l’intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo «esserci» della faccia di un negro o dell’opera di un autore [29].
L’intellettuale, lo scrittore, non ha scelta, lo è e basta. La diversità, conseguenza inesorabile della natura stessa dell’intellettuale, è l’unica dimensione possibile. La rivoluzione non è un atto, ma una presenza che di per sé si oppone a un sistema strutturato nelle anguste dinamiche del potere. L’intellettuale è manifestazione della creatività, e il potere non può essere creativo, deve per forza reiterarsi attraverso gli stessi identici schemi. L’intellettuale nuoce al sistema che lo voglia o meno.
L’antitesi tra potere e creatività è rappresentata allegoricamente dalla contrapposizione tra il sonno e la veglia. L’intellettuale si materializza nella coscienza della società come il sogno suggerisce nuove prospettive in colui che dorme. Il sogno smaschera l’ipnosi della realtà, la creatività rovescia le prospettive abituali: come in un paradosso taoista [30], Rosaura valica i confini tra sonno e veglia [31]. L’intellettuale è «sole che attraversa la polvere» [32]: mentre la società si avvolge continuamente nella polvere del potere, sceglie e perpetua la cecità di Edipo, egli ha l’obbligo e il dovere di continuare a «denunciare ciò che lo fa soffrire; senza diplomazie, senza timore dell’impopolarità, come uno che non ha niente da perdere» [33].
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NOTE
1 È Pasolini stesso a definire «drammatici» i suoi rapporti con il padre: «C’era una diversità di ideologia, di carattere […]. Io inconsciamente forse ero profondamente nemico a lui, e lui era profondamente nemico a me inconsciamente, ma in realtà è stato lui che mi ha spinto a prendere la carriera che ho preso», G. SICA (a cura di), Pasolini racconta Pasolini, videoregistrazione di Rai Educational, in G. JORI (a cura di), Pasolini. La vita e le opere, Einaudi, Torino 2001.
2 PASOLINI, Intervista rilasciata a Dacia Maraini, in «Vogue Italia», maggio 1971, in D. MARAINI, E tu chi eri? 26 interviste sull’infanzia, Rizzoli, Milano 1998, pp. 326-328, ora anche in Saggi sulla politica…, cit., p. 1678-1679. Anche il cugino Nico Naldini racconta: «Le scenate in famiglia sono una continuazione di quelle che si ripetono nell’intimità coniugale, rese, negli anni dopo il matrimonio, ancora più disperate e aggressive dalla tirannia passionale di Carlo», da una ricostruzione di N. NALDINI, Cronologia, in Lettere vol I., cit., p. XVIII. Pasolini ha più volte ricordato di aver vissuto quelle liti familiari come una «vera tragedia», Cfr. G. SICA, Pasolini racconta Pasolini, cit. Enzo Siciliano, nella biografia dello scrittore, si è soffermato attentamente sul rapporto dei genitori di Pasolini e sull’«irruenza paterna», Cfr., E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978, pp. 56-57 (nuova edizione Mondadori, Milano 2005).
3 P.P. PASOLINI, Poeta delle ceneri, in Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. CHIARCOSSI e W. SITI, Garzanti, Milano 1993, vol. II, p. 2059.
4 La tragedia Pilade è la continuazione dell’Orestea di Eschilo. Pensata e iniziata a scrivere da Pasolini nel ’65 e portata a termine nel ’66 contemporaneamente ad Affabulazione e Porcile, come risulta da una lettera di Pasolini del ‘70 indirizzata a Walter Siti, in N. NALDINI (a cura di), Vita attraverso le lettere, Einaudi Tascabili, Torino 1994, p. 300.
5 PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi Tascabili, Torino 2003, p. 10. Il tema della colpa, che certamente risente della morte in guerra del fratello Guido (muore come partigiano ucciso dai comunisti di Tito favorevoli all’annessione del Friuli e della Venezia Giulia alla Jugoslavia), ricorre, come vedremo, in molte altre opere. Nel Vangelo secondo Matteo Pasolini si immedesima nel Cristo da crocifiggere.
6 Pasolini si avvicina nel ‘44 al mito greco con la tragedia contadina I Turcs tal Friùl. Gli anni ‘60 segnano il passaggio alla tragedia borghese. Per il rapporto di Pasolini con il teatro greco e con il teatro in generale si veda S. CASI, Pasolini un’idea di teatro, Campanotto editore, Udine 1992 e I teatri di Pasolini con una introduzione di L. Ronconi, Ubulibri, Milano 2005.
7 PASOLINI, Poeta delle Ceneri, in Bestemmia, cit., p. 2059.
8 Degna di nota è la recensione di Poesie a Casarsa che Gianfranco Contini scrive sul «Corriere del Ticino» il 24 aprile 1943, testimoniando un’originale apprezzamento della raccolta. Asor Rosa arriverà molto più tardi a definirla una «sacra rappresentazione», A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 447.
9 F. FORTINI, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. 153. Nella lirica pasoliniana la parola ragionata sarà presente soprattutto a partire da Le ceneri di Gramsci. Franco Fortini conia un ossimoro interessante «passione ragionata». Anche Italo Calvino in una lettera privata a Mario Cerroni scrive: «… fa delle poesie lunghe, con tanti ragionamenti dentro, con immagini che diventano emblematiche dei nostri problemi, e con una tecnica di versificazione da sbalordire. Non è che le sue poesie “mi piacciano”: è che (come nelle Ceneri di Gramsci) ci trovo da discutere, magari pezzo per pezzo, da dimostrare che è tutto sbagliato. Ma è questa la poesia di cui abbiamo bisogno: una poesia che si possa discutere, che tocchi le contraddizioni del mondo in cui ci moviamo, che faccia venire preoccupazioni nuove, anche che irriti, che rompa le scatole!», I. CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. BARANELLI, I Meridiani, Mondadori, Milano 2000, pp. 454-455.
10 Pasolini manifesta in questi anni l’interesse per la dimensione orale della parola. Insieme agli amici Carlo Alberto Manzoni e Roberto Roversi, si dedica alla lettura ad alta voce: «…facevamo teatro, recitavamo», PASOLINI, Lettere. 1940-1954, a cura di N. NALDINI, Einaudi, Torino, 1986, vol. I, p. XXXII. Si vedano in proposito le considerazioni di Stefano Casi in Pasolini un’idea di teatro, cit., pp. 30-32.
11 «Pasolini rifiuta insomma di confezionare l’oggetto estetico, sottraendosi all’obbligo dello stile, di essere una “bestia da stile”, e fa una scommessa non ingenua, ma drastica e paradossale, sulla parola diretta – sì, proprio su quel “ragionamento in versi” che analizza, critica e denuncia», C. BENEDETTI, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 17.
12 Il fascismo, come è noto, non amava il dialetto in quanto elemento di distinzione dalla nazionalità. La consapevole adozione del dialetto friulano non poteva che restare invisa a unaottica fascista. Dichiara Pasolini in Il sogno del centauro: «La mia reazione nei riguardi del fascismo si manifestò dunque attraverso una passione per tutta la cultura che esso passava sotto silenzio», PASOLINI, Il sogno del centauro, intervista a cura di J. DUFLOT, in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. SITI e S. DE LAUDE, I Meridiani Mondadori, Milano 2001, p. 1414.
13 Il dialetto friulano è la lingua parlata dai contadini di Casarsa dalla cui famiglia proviene la madre di Pasolini. Pasolini è attratto e affascinato da questa lingua con caratteristiche proprie, tramandata oralmente da una generazione all’altra senza mai un’attestazione scritta e considerata dall’autore allo stesso livello delle lingue neolatine minori, come il catalano, il provenzale, il romanico. Una lingua dall’autenticità viscerale che racchiude un mondo pre-capitalistico e incontaminato.
14 PASOLINI, Il sogno del centauro, cit., p. 1407.
15 PASOLINI, Supplica a mia madre, nella raccolta Poesia in forma di rosa, in Bestemmia, II vol., cit., p. 640.
16 Il Vangelo secondo Matteo, film di Pasolini del 1964.
17 L’opposizione tra figura materna e paterna si presenta in modi diversi nelle opere di Pasolini. In Medea la figura di Giasone simbolo di razionalità, modernità e cultura borghese si contrappone a Medea portatrice di una cultura sacrale e primitiva. In questa tragedia anche la figura del centauro è simbolo dell’androgino «della potenza paterna e della maternità», PASOLINI, Il sogno del centauro, cit., p. 1506. Si rimanda a M. FUSILLO, Medea: un conflitto di culture, in M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1996 e a P.C. RIVOLTELLA, Per una lettura simbolica del film “Medea”, di Pier Paolo Pasolini, in A. CASCETTA (a cura di), Sulle orme dell’antico. La tragedia greca e la scena contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 1991.
18 PASOLINI, Il sogno del centauro, cit., p. 1507.
19 Ibid. In particolare, nei film di Pasolini le donne hanno grande nobiltà: in Porcile incarnano una grande purezza (Ida), in Teorema la grazia e l’eleganza (Lucia). Dacia Maraini in un intervista rilasciata nel ’76 a G.R. Ricci afferma: «Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è sempre un modo di capire le persone: amare una persona vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha amato è la madre. […] Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come immagini della madre, in altri momenti le vedeva attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri momenti ancora le concepiva come figure poetiche e molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro realtà, in maniera problematica», in AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976.
20 «La donna rappresenta la vitalità. Le cose muoiono e noi ne proviamo dolore, ma poi la vitalità ritorna: ecco che cosa rappresenta la donna» PASOLINI., Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday: 1968-1971, in Saggi sulla politica…, cit., p. 1350.
21 Molti anni dopo Pasolini confesserà: «Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa, un po’ alla volta, la letteratura, io rinunciavo alla mia nazionalità. Dicevo no alle mie origini piccolo borghesi, voltavo le spalle a tutto ciò che fa italiano, protestavo, ingenuamente, inscenando un’abiura che, nel momento di umiliarmi e castrarmi, mi esaltava», PASOLINI, Poeta delle Ceneri, in Bestemmia, vol. II, cit., p. 2067.
22 PASOLINI, Il sogno del centauro, in Saggi sulla politica…, cit., pp. 1410-1412.
23 Ibid.
24 Il sottoproletariato è, secondo Pasolini, un mondo sopravvissuto alla prima rivoluzione industriale che la nuova classe dirigente non riesce ad assorbire. Le borgate sono testimonianza di scandalo nello sviluppo della società del benessere, i sottoproletari «hanno spaventato i borghesi, non soltanto perché rappresentano la loro coscienza, ma anche l’uomo con elementi di tipo religioso, di tipo irrazionale, di tipo integralmente umano», PASOLINI, Una visione del mondo epico-religiosa, «Bianco e Nero», giugno 1964, p. 36.
25 PASOLINI, Fuori dal Palazzo, in «Corriere della Sera», 1 agosto 1975. Dallo stesso quotidiano Luigi Compagnone obietta: «Se è vero, come è vero, che cronaca e realtà sono “fuori dal Palazzo”, il mondo come Pasolini lo vede è forse uno sguardo dall’interno di un altro “Palazzo”: il suo “Palazzo interiore”, la sua diacronia personale», L. COMPAGNONE, Non è «normale» essere criminali, «Corriere della Sera», 4 agosto 1975. Per gli accesi dibattiti, scatenati dalle riflessioni di Pasolini negli anni settanta, si rimanda al capitolo terzo.
26 Il pressante soffermarsi delle inquadrature sui corpi e sui volti segnati da esistenze in salita rivela un cinema «…tutto addosso ai personaggi», PASOLINI, La vigilia il 4 ottobre, in PASOLINI, Accattone, Mamma Roma, Ostia, Garzanti Gli elefanti, Milano 1993, p. 35.
27 In Mamma Roma, film di Pasolini del 1962.
28 «In realtà la “crisi” di Accattone è una crisi totalmente individuale: si compie non solo nell'am- bito della sua irriflessa e inconscia personalità, ma nell’ambito della sua irriflessa e inconscia personalità», PASOLINI, Accattone e Tommasino, in «Vie Nuove», n. 20, 1 luglio 1961, in Saggi sulla politica…, cit., p. 942.
29 PASOLINI, Gli studenti di «Ombre Rosse», «Tempo» n. 51, 14 dicembre 1968, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., 1157 e in PASOLINI, Accattone, Mamma Roma, Ostia, cit., pp. 582-583.
30 Cfr. L. Kia-Hway (a cura di), Chuang-Tzu [Zhuang-Zi], RCS Fabbri Editori, I classici dello spirito, Milano 19972, p. 32.
31 Rosaura è la protagonista dell’unico dramma teatrale pubblicato in vita da Pasolini nel 1973, Calderón, che richiama l’opera del tragediografo spagnolo Pedro Calderón de la Barca.
32 PASOLINI, Siamo tutti in pericolo, intervista a cura di F COLOMBO, in «Tuttolibri», 2-8 novembre 1975, in Saggi sulla politica…, cit., p. 1724.
33 PASOLINI, in Interviste corsare sulla politica e sulla vita, 1955-1975, a cura di M. GULINUCCI, Liberal Atlantide Editoriale, Roma 1995, pp. 272-273.
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