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Pier Paolo Pasolini a Caserta È il 1951. Pier Paolo Pasolini sta facendo un suo viaggio nel Sud dell'Italia, più frammentario e impreciso, più corto e clandestino, di quello di Piovene, ma come al solito ficcante. Con quella profondità del principiante, è appena arrivato «dalle Puglie» ed è sceso da un treno per attraversare una città che non conosce e di cui dice cose che la svelano come se si fosse denudata davanti a lui, come se stesse aspettando lui. Caserta. Scrive dalla stazione, Pasolini, perché questa passeggiata dura pochissimo, oltre quella che oggi si chiama Piazza Dante per arrivare a Piazza Mercato per poi tornare indietro, di corsa, a rifugiarsi nella sala d'aspetto della stazione e difendersi da quella noia, da quella luce che a starci dentro uno nemmeno se ne accorge che è così potente, da quel mancato rumore che sembra averlo stordito. Certo, a parte il rumore del traffico oggi, che però non è più affrontabile come rumore, dice cose che valgono ancora, quasi intatte. Sono questioni non di superficie, non di sguardo per capirci, ma Pasolini ficca gli occhi direttamente dentro l'anima della città, cogliendone gli aspetti più feroci: la noia e la luce, e anche quelle cose né antiche né recenti che centrano il bersaglio di certa provincia meridionale. [...] Così, in un giorno d'ottobre del 1951, arriva un poeta bassino, dal corpo sottile e nervoso, coperto da occhiali scuri e trascinato da un passo curioso e timoroso e va a toccare con distrazione le ragioni profonde di una condizione, di un suono ovattato che sente (o meglio, che quasi non sente). «Totale e concreta come la luce è la noia. Gli abitanti di Caserta sembrano afoni. Mi sono spinto verso il cuore della cittadina fino a un vasto piazzale dove si stava smontando il mercato della mattina, tra bivacchi di cavoli e fichi d'India, senza sentire un grido».Poi torna nella piazza circolare e vede un vigile solitario che litiga col piedistallo rotondo a strisce bianche e nere, perché vuole trascinarlo via e diffonde nel silenzio un frastuono feroce. E la conclusione è la stessa di tutti, che sopportiamo da anni: la cosa migliore è passare col treno senza fermarsi, dice Pasolini, e guardare la bellezza del Palazzo Reale «scolpito nella sua polvere, rosa, di quel rosa che hanno le architetture nei sogni». Qualche volta viene rimproverato alle persone che se ne vanno a vivere lontano, di diventare spietati con la propria città. Esse si sono semplicemente tirate fuori per un po', e quando ritornano sentono addosso tutto quel che non riuscivano a sentire quando la quotidianità li aveva abituati ai rumori. Sono come quelli che vivono in case dove i condizionatori d'aria recano refrigerio ma fanno un rumore infernale, per gli altri, perché loro non se ne accorgono. Almeno fino a quando i condizionatori vengono spenti, e all'improvviso arriva un silenzio così potente che scoprono con dolore di essere stati assordati senza saperlo. La differenza tra una passeggiata di Pasolini curiosa e distaccata e quella di una persona che torna nella propria città dopo un tempo lungo, sta nel dolore. Chi torna ama così profondamente i propri luoghi che non può fare a meno di svelare il dolore che provoca quel che fa male e che nessuno sente più; ma chi è un poeta può essere feroce allo stesso modo perché si sveglia ogni mattina con il dolore del mondo che grava su di sé; così, quando scende dal treno sa prendere sulle sue spalle quel malessere che ha incontrato in tutte le persone che ha incrociato e in quelle che non ha incrociato per una questione casuale, ma che nell'aria hanno lasciato la scia della loro esistenza. Questa sortita avviene sei anni prima che questi luoghi entrino nella sua vita, la incontrino per militanza e destino. Solo nel 1957, infatti, pubblicherà prima su «Nuovi Argomenti» e poi ne Le ceneri di Gramsci il poemetto «Terra di Lavoro», che racconta ancora di un viaggio in treno, e lo sguardo del poeta si posa sulle facce sofferenti, sole, abbandonate, dei contadini della campagna casertana. Non è un destino occasionale, quello che lega Pasolini a questa terra. Venti anni dopo questa passeggiata, infatti, uscirà il film Decameron che avrà girato per gran parte a Casertavecchia. ![]() E ora, grazie al recupero dei Meridiani, ci si imbatte in questa pagina scritta molti anni prima, in cui Pasolini testimonia passo per passo un suo percorso dentro Caserta. E qualsiasi cittadino può seguire il suo cammino attraverso le parole, sapendo cosa ha guardato e cosa non c'era allora. Può sentire la ferita dei colpi inferti, una ferita lontana e sempre aperta. Però può consolarsi della luce, alzando la testa per cercare di coglierla. Ma, appunto, a starci dentro, la luce, non si riconosce la sua luminosità. E allora è inutile. Fonte: Francesco Piccolo, "il Mattino" di Napoli, 29 luglio 2002 |
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