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Cinema IL '68 AL CINEMA ll presente è vittima dell'irreale mentre lo specchio del tempo gli contrappone il riflesso di un passato, una dimensione scomparsa tra le cui braccia era stata cullata la vita Reale. Reale è il mondo perduto nella suggestione poetica pasoliniana che sfiora Proust rimanendo però intrappolata nella sua incapacità di ritrovare ciò che ha smarrito. L'indagine realistica che affliggeva il poeta dal periodo adolescenziale, accompagnata dalla pretesa di raggiungere la verità attraverso la visività, trova dunque nel cinema la sua piena realizzazione. Più volte egli stesso si definì neosperimentalista, segnando una netta linea di demarcazione tra il suo personale modo di rappresentare la realtà e quello invece proposto dai neorealisti. Anche quando usa l'arte come fonte d'immagine, non riporta una superficiale ripresa dell'opera citata: egli vuole andare oltre e nel fare questo, evita di ricostruire situazioni verosimili ponendo attori che sembrino veri. Al contrario, effettua un'operazione inversa: mette la realtà in scena e la lascia parlare attraverso le persone che la vivono, non professionisti nel campo della recitazione, termine quest' ultimo che, essendo custode del germe ingannevole della falsità, avrebbe implicato una spaccatura nella lucida coerenza di Pier Paolo. La finzione non serve perché già presente nel tempo da lui vissuto. Il cinema per Pasolini è speranza di proteggersi dalla finzione. Diventa il luogo incontaminato dove il contatto con il passato è possibile e dove egli, nutrito dalla lezione del Maestro Longhi, può divenire simile agli artisti rinascimentali da lui tanto amati. Come Giotto crea i suoi affreschi, Pasolini opera nella creazione dei suoi film, adottando le medesime metodologie di un pittore, lavorando per quadri staccati impostati sulla base di una successione episodica che viene ordinata dalla sceneggiatura la quale, ora, subentra in luogo della struttura pittorica. Il Vangelo secondo Matteo, film girato nel 1964, contiene tutti gli elementi per analizzare e comprendere il cinema di poesia pasoliniano, sorto da un desiderio di giungere alla mimesis del mondo attraverso la citazione artistica. La pellicola si divide in quattro parti, le più corte, quasi senza parole, costituiscono in maniera simmetrica l'inizio e la fine del film: nascita/gioventù, condanna/morte/resurrezione. Le prediche e le annunciazione del Cristo in cammino sono l'argomento dominante delle due lunghe parti centrali. Uno studio fondato sull'armoniosità rifinisce il disegno delle singole sequenze sino alla composizione delle figure, questa sentita alla maniera rinascimentale, in una chiusura volutamente solenne e spirituale. I numerosi primi piani sono un palese richiamo ai ritratti di trequarti tipicamente quattrocenteschi e gli stessi abiti dei farisei e degli scribi sono simili alle figure delle tele di Piero della Francesca, pittore che ispira interamente la scena dedicata al "Battesimo di Cristo". Il legame con Giotto traspare dalla costruzione tipologica delle scene concatenate tra loro, in una ripetizione paesaggistica e architettonica. Il montaggio del film viene concepito come la forma architettonica vincolante e allo stesso tempo sistema orientativo in cui si possono rilevare chiaramente le differenziazioni tra le varie scene. La tecnica di ripresa sacrale elaborata in Accattone nel 1961 è trasgredita in quanto il continuo accostamento dello stile "riverente" al tema del sacro avrebbe assunto la maschera del ridicolo. Nulla doveva essere deformato dallo sguardo del regista: per esprimere il sacro, niente vi era di più sacro della Verità perduta. Il dolore del Cristo non viene enfatizzato. La salita al Calvario è sentita sul corpo del regista che, cinepresa in spalla, segue il cammino del Messia sul roccioso sentiero dell'ingiustizia. Tutto era presente, doveva solo essere catturato dagli occhi ed è in ciò che risiede il potere del cinema. Proprio per questa ragione il simbolismo del linguaggio verbale, ad un certo momento, divenne per Pasolini prigione da cui fuggire. La potenza evocativa della parola ci dà infatti, una visione dell'universo umano che non è mai completamente pura, ossia totalmente aderente alla Realtà ma può essere mortificata dal poeta/scrittore del momento, che in base al suo stato d'animo ne sottolinea un aspetto piuttosto che un altro. Il modo migliore per cogliere la Realtà è riuscire ad afferrarla in tutte le sue manifestazioni e questo, secondo l'ottica di Pasolini, lo si può fare in modo particolare attraverso la rappresentazione visiva. Il Vangelo secondo Matteo esprime l'intimità di questa tensione intellettuale pienamente, attraverso la morte del Cristo, la quale diviene primitiva parabola della fine della Realtà resa martire sulla lignea croce del Progresso.
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