Mezzanotte
è a stento passata;
l’aria è fredda,
il vento soffia
sul tuo corpo
ancora ardente
di sangue.
Ti sono vicino,
da sempre;
anche ora
che la tua macchina
è appena scappata
e che qui
nel buio
sei solo.
L’una, le due.
La brezza fredda del mare
ti asciuga sugli abiti il sangue,
incrosta
il tuo volto
devastato,
le labbra
che poco prima
hanno urlato
la madre.
Tutto è fermo:
non sento nemmeno
le onde del mare vicino;
neppure più il battito
di cuori in tumulto,
di chi ha visto e sentito
e non parlerà,
né ora, né mai.
Le tre, poi le quattro, le cinque.
Ho in grembo la tua povera testa,
accarezzo intrisi
i radi capelli,
chiudo, lento,
l’occhio sconvolto;
con gesto veloce riaccosto
i lembi dei tuoi pantaloni
che altri hanno,
impudicamente, slacciato.
Sono qui a vegliare
il tuo corpo,
mentre tu sei,
spero,
chissà dove.
Già,
chissà dove...
Le sei.
Non arriva nessuno nell’alba,
calcinata,
del triste giorno festivo:
no, anzi, una donna,
una piccola donna,
ancora lontana.
Fra poco inizierà
l’immonda commedia.
Paolo,
un’ultima carezza veloce
sulla bocca che più non grida,
ma, nemmeno, ahimè,
parlerà.
Me ne vado,
scompaio su, in alto.
Stavolta,
per sempre.
Emanuele Di Marco
5 settembre 2008
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